Una serie creata da Chris Van Dusen. Con Jonathan Bailey, Simone Ashley, Adjoa Andoh, Ruth Gemmell, Charithra Chandran, Luke Thompson, Luke Newton, Claudia Jessie, Nicola Coughlan, Polly Walker.
USA. 2020-in produzione
Come il collega e amico Roberto Sapienza insegna, per una serie di successo ripetersi, dopo una prima stagione entusiasmante, non è scontato. Si possono riproporre gli stessi attori, la stessa tipologia di storia, tutti gli elementi che hanno suscitato l’apprezzamento del pubblico, eppure non è detto che la magia torni a compiersi.
È il caso, per come la vedo io, di “Bridgerton”, che dopo aver incantato il pubblico di mezzo mondo sul finire del 2020 (diventando il titolo originale più visto di sempre sulla piattaforma), torna su Netflix con i nuovi episodi.
Dopo aver raccontato la storia d’amore di Daphne (Phoebe Dynevor) e del Duca di Hastings (Regé-Jean Page), il focus si sposta sul primogenito maschio della famiglia, Anthony (Bailey), intenzionato a trovare una degna sposa, senza scomodare troppo i sentimenti, nella stagione mondana 1814.
La scelta cade sulla giovane Edwina Sharma (Chandran), tornata di recente dall’India con la famiglia. Ma convincere la sorella di lei, Kate (Ashley), considerata una zitella impicciona, ad accordare all’unione la sua benedizione, sarà per Anthony tutt’altro che impresa facile. Ma tra una partita di pal mal in campagna e una cavalcata nel parco, quella che era nata come una forte antipatia si trasformerà in un sentimento di tutt’altro genere…
Facciamo una premessa: io non sono una critica per vocazione – e se ricordate la mia recensione della prima stagione di “Bridgerton”, piuttosto entusiasta (potete trovarla qui), ne avrete la conferma. Nel 2021 avevo sottolineato senza problemi i pregi del progetto targato Shondaland, e ne ero rimasta positivamente colpita. Stavolta, invece, le note dolenti sono predominanti.
Cosa c’è che non va – sempre secondo il mio modesto parere, ovviamente? Non la coppia protagonista, quei Jonathan Bailey e Simone Ashley che raccolgono in modo più che decoroso la pesante eredità di Phoebe Dynevor e Regé-Jean Page. La storia tra Anthony e Kate, l’iniziale antipatia che si trasforma, poco a poco, in un grande amore, è convincente, emozionante, bene interpretata (al netto di qualche scambio di battute eccessivamente caricato).
Certo, qualche scena “di contatto” in più forse non avrebbe guastato, visto come queste si inserivano bene nel contesto generale nella prima stagione di “Bridgerton”, contribuendo, anche grazie alla fantastica colonna sonora, a rendere il racconto piccante e intrigante al punto giusto. In un’intervista di qualche tempo fa gli sceneggiatori avevano promesso “più sesso, più scandali, più emozioni” ma di sesso, vi avviso, stavolta ce n’è davvero pochissimo!
Ma il problema, ovviamente, non è questo. Il “problema”, se così vogliamo chiamarlo, è connaturato principalmente alla natura stessa del “progetto Bridgerton”, ovvero alla decisione di sceneggiatori e produttori di seguire alla lettera l’impostazione dei romanzi di Julia Quinn, dedicando quindi a ogni fratello e sorella della famiglia una propria stagione.
Questo fa sì che il protagonista – in questo caso Anthony – vada avanti nella sua storia, abbia uno sviluppo e una storyline forte, mentre tutti gli altri arrancano, gioco forza, nelle retrovie. D’altra parte, se è stato deciso che, ad esempio, Eloise non si innamori e non si sposi prima della stagione cinque non c’è molto che le resti da fare, negli episodi precedenti!
E così vediamo Benedict fare a malapena la comparsa (la sottotrama della Royal academy è a malapena accennata); Colin tornare dal suo grand tour in Europa abbronzato, appesantito e ancora sofferente per Marina (ma il chiarimento con quella che è diventata Lady Crane non dà alcun apporto allo sviluppo della storia, se non forse introducendo alcuni personaggi che saranno centrali più avanti).
Daphne compare di tanto in tanto per “supportare il fratello”, ma la sua presenza è tutt’altro che graffiante. E d’altro canto, in questo caso, la “colpa” potrebbe non essere nemmeno interamente sua o degli sceneggiatori, visto che la decisione di Regé-Jean Page di non tornare nel ruolo del Duca di Hastings ha tolto loro gran parte del materiale che avrebbero potuto sfruttare per rendere questa sottotrama in qualche modo interessante – vedere i due alle prese con la nuova vita di genitori, ecc. ecc.
Eloise poi non ne parliamo nemmeno: in quanto donna non sposata è chiaramente quella con le minori possibilità di sviluppo di trama – è un dato di fatto che, all’epoca, per una giovane di buona famiglia “la vita sentimentale” iniziava e coincideva con il matrimonio. La sua ossessione per l’identità di Lady Whistledown era già fastidiosa nella prima stagione, figuriamoci adesso…
Nella prima stagione di “Bridgerton” la storia di Daphne e del duca era il centro del racconto, certo, ma questa non nuotava in un vuoto cosmico – vuoi per la novità, quindi anche la semplice presentazione dei personaggi fungeva da valido riempitivo, vuoi per qualche buona idea (Anthony non sarà stato un mostro di simpatia, ma la sua mezz’ora la reggeva bene; il raggiro della signorina Thompson ai danni di Colin; la caduta in disgrazie di Lord Featherington; la back story di Simon).
Stavolta invece… vuoto cosmico! E qui torniamo al “problema” strutturale della serie di cui parlavo prima: se i romanzi di Julia Quinn funzionano benissimo prevedendo uno al massimo due personaggi principali, e rispettivi punti di vista, per una serie televisiva da otto ore a stagione serve ben altro. Servono delle storyline “secondarie” almeno vagamente interessanti, per riempire il tempo. Perché per raccontare degnamente l’amore tra Anthony e Kate la metà delle puntate – voglio essere generosa – sarebbe stata più che sufficiente!
La seconda stagione di “Bridgerton” non è tutta da buttare, intendiamoci: i due protagonisti sono affiatati e piacevoli da guardare; la colonna sonora si conferma punto di forza della serie, con gli arrangiamenti in chiave ottocentesca di successi moderni come “Material girl” di Madonna o “Dancing on my own” di Calum Scott. Curata e sfavillante la fotografia, con i verdi della campagna, i colori vivaci degli abiti, gli stucchi dorati delle residenze che risaltano e contribuiscono a creare un’atmosfera quasi favolistica.
Ai Bridgerton e agli altri ci siamo già, in qualche modo, affezionati, e ritrovarli è piacevole. Se stesse a me decidere, semplicemente, prenderei in considerazione l’idea di ritoccare il progetto originale, accorpando magari la ricerca di moglie di Benedict con quella di Colin, così da permettere a un maggior numero di personaggi di avere qualcosa da raccontare e qualcosa da fare nella prossima stagione – non voglio nemmeno pensare ad altri otto, estenuanti, episodi con Lady Whistledown che si affanna a tenere celata la sua identità e continuare comunque a pubblicare.
Visto il successo del format difficilmente le cose andranno così. C’è allora da sperare che gli sceneggiatori pensino a qualche sotto-trama interessante, oltre a quella principale, in questi mesi. E in questo senso, magari, il ritorno di Regé-Jean Page e la permanenza dei protagonisti di quest’anno, Jonathan Bailey e Simone Ashley, potrebbe aiutare (per coloro che hanno concluso l’arco narrativo mutuato dai romanzi le possibilità di sviluppo sono oggettivamente maggiori). Staremo a vedere.