Incontro ravvicinato con Martin Scorsese, premio alla carriera a Roma

Il cineasta italoamericano ha tenuto una lezione di cinema per una platea con tanti volti noti

di Concetta Piro

 

Il grande protagonista della quinta giornata della 13° edizione della Festa del Cinema di Roma è stato senza dubbio Martin Scorsese che ha ricevuto il Premio alla carriera dalle mani di Paolo Taviani.

In una Sala Sinopoli gremita di persone, tra cui spiccavano molti volti noti della televisione e del cinema, da Giuseppe Tornatore a Pif, da Dante Ferretti a Francesca Lo Schiavo, riunite per omaggiare il cineasta italoamericano, ha avuto luogo una lezione di cinema fuori dall’ordinario.

Scorsese ha scelto nove pellicole del panorama cinefilo italiano, girate tra il 1952 e il 1966, pellicole che hanno cambiato e inciso non solo sulla sua vita ma soprattutto sul suo cinema. Ecco cos’ha raccontato al pubblico romano.

 

“ACCATTONE” di Pier Paolo Pasolini (1961)

Vidi il film al New York Film Festival e fu davvero un’esperienza potente. Per me che sono cresciuto in un quartiere duro era facile provare una sorta di identificazione. È sempre difficile parlare di Pasolini, ma questo film per me fu come un lampo, uno shock. Mi sorprese l’espressione di tutta questa santità. Quando nella scena finale il protagonista, in punto di morte, dice di stare finalmente considerando tutta la sofferenza che ha dovuto patire in vita, credo si possa definire l’emblema della religiosità. Ma ci sono altri elementi che riportano alla religione: il fatto stesso che muoia tra due ladri, uno dei quali si fa addirittura il segno della croce al contrario, oppure il nome di una delle prostitute, Maddalena. La musica di Bach in sottofondo rende ancora di più l’idea di un paradiso perduto dal quale i peccatori come loro vengono esclusi. Insomma, la tragedia della morte di una persona dimenticata. Se ci pensiamo bene le persone più infime, quelle più sofferenti, sono le persone più vicine a Dio.

 

“LA PRESA DEL POTERE DA PARTE DI LUIGI XIV” di Roberto Rossellini (1966)

Quando avevo 5 anni avevamo a casa un piccolo apparecchio televisivo dove trasmettevano i film del neorealismo. Quello che vedevo per me non era cinema ma il mondo reale, tutto mi appariva come vita vera. Ci trovavo sempre una connessione con la mia famiglia. Ricordo di aver visto anche questo film al NYFF, dove non era stato accolto benissimo. Rossellini ha aiutato a rinnovare il cinema; quando ha avuto la percezione che l’arte fosse troppo rivolta verso se stessa ha capito che era arrivato il momento di fare altro e ha iniziato a fare film didattici per la televisione. Il suo modo di trasmettere la storia attraverso l’utilizzo di certe immagini gli permetteva di ridurre tutto all’essenziale. Questo mi ha aperto la strada e mi ha spinto a utilizzare lo stesso metodo nei miei film, da “Toro Scatenato” a “Re per una notte” fino alle mie pellicole più recenti. Ricordo di averlo incontrato una volta per strada, proprio mentre parlavo di lui con un’altra persona. Era il 1970 ed ero proprio qui, a Roma. Mi sono complimentato con lui e gli ho parlato della popolarità del suo film in America ma lui mi disse che la cosa più importante per lui era istruire. Non era interessato alla popolarità ma a diffondere la conoscenza.

 

“UMBERTO D” di Vittorio De Sica (1952)

Ho visto il film tardi, qualche anno dopo la sua uscita. Lo trovo straordinario, bellissimo. Rappresenta l’apice del neorealismo. A partire dalla scelta di mettere come protagonista un anziano abbandonato a se stesso, posto ai margini della società, che non si cura di lui in nessun modo – e pensate che Carlo Battisti non era nemmeno un attore professionista ma un modesto bibliotecario. È evidente che non vuole affatto essere un film sentimentale nonostante la musica in crescendo possa portare a pensarlo. Lo dimostra il fatto che, quando il protagonista sente il bisogno di mangiare, neanche il fatto che finisca per sfruttare il suo cane riesce a tirare fuori del sentimento dallo spettatore.

 

“IL POSTO” di Ermanno Olmi (1961)

È un film davvero speciale. Il distributore, che possedeva i migliori cinema di New York, decise che il primo giorno di proiezioni fosse gratuito. Ci troviamo di fronte a uno stile sottomesso ed economico, quasi documentaristico, che è rappresentativo del cinema di Olmi, un po’ alla John Cassavetes. In questo film c’è questa scena in cui sembra che l’umanità sia stata eliminata: un uomo ha un infarto e muore. Per un po’ sono tutti tristi poi vediamo l’armadio pieno di sui vestiti, dissolvenza e poi di nuovo lo stesso armadio vuoto e ancora dissolvenza. Questo è senza dubbio il genere di film a cui mi sono ispirato.

 

“L’ECLISSE” di Michelangelo Antonioni (1961)

I film di Antonioni ho dovuto imparare a leggerli. L’osservare deriva dal fatto che sono cresciuto nell’epoca d’oro del cinema e questo mi ha permesso di fermarmi ad osservare le immagini anche per un lungo periodo. C’è stato un periodo in cui c’era un vero e proprio conflitto tra “L’avventura”, il primo film di Antonioni che ho visto, e “La dolce vita” e ci si chiedeva quale fosse il migliore. E quello era il periodo in cui guardavo ripetutamente il film di Antonioni, era una sorta di “arte moderna” dell’epoca. Se osservate bene, la narrazione avviene attraverso l’utilizzo della luce, del buio o dell’oscurità. Possiede uno dei finali più belli che abbia mai visto. Con la sua trilogia – che comprende anche “La notte” oltre a “L’avventura” e “L’eclisse” – Antonioni ha ridefinito il linguaggio cinematografico.

 

“DIVORZIO ALL’ITALIANA” di Pietro Germi (1961)

È senza dubbio il film che più mi ha ispirato per “Quei bravi ragazzi”, sia da un punto di vista stilistico ma anche per l’arguzia, per la parte umoristica. Questo stile satirico viene espresso con l’utilizzo del bianco e nero e di movimenti di macchina. Ma non c’è solo satira, c’è anche molta verità.

 

“SALVATORE GIULIANO” di Francesco Rosi (1962)

Nell’immagine di questa donna che piange per il figlio morto non vediamo una madre ma La Madre. Rosi si prende la briga di mostrare i fatti eppure, in qualche modo, i fatti non sono la verità. La tragedia del sud che deriva da anni di sofferenza in cui si sono insediate le radici della corruzione vanno sempre più in profondità. I miei nonni si sono trasferiti dalla Sicilia a New York nel 1910 e mi sono sempre chiesto perché non si fidassero delle istituzioni. L’eccessivo peso di migliaia di anni di soprusi lo troviamo tutto nel dolore di questa madre. Non avevo mai visto una cosa del genere, questo modo di mostrare le emozioni attraverso lo schermo era qualcosa di totalmente sconosciuto.

 

“IL GATTOPARDO” di Luchino Visconti (1963)

È piuttosto evidente l’influenza che questo film ha avuto su “L’età dell’innocenza”. Mi interessava raccontare l’antropologia di quella vita, partendo dal minimo dettaglio fino ad arrivare al macrocosmo. La pellicola combina l’impegno politico con l’opera, il melodramma e lo fa senza briglie, come accade anche in “Rocco e i suoi fratelli”, e questa modo ha inciso su di me e su De Niro quando abbiamo girato “Toro Scatenato”. Questo ritmo intenzionalmente fermo e meditativo con queste inquadrature lussureggianti, ci indicano uno stile totalmente diverso da quello minimalista di Antonioni. Quello che più mi colpisce è il passaggio del tempo visto attraverso il personaggio del principe Salina quando capisce che vecchi valori lasceranno spazio a qualcosa di nuovo e che è arrivato il momento di andarsene. Come scrisse appunto Lampedusa: “Perché tutto rimanga com’è tutto deve cambiare”. E Salina finisce per abbracciare tutto questo fino ad accettare che accada.

 

“LE NOTTI DI CABIRIA” di Federico Fellini (1957)

Adoro il finale di questo film. È come una vera e propria rinascita spirituale. Ho incontrato Fellini più volte, una volta era sul set de “La città delle donne”. Da “La strada”, il primo film di Fellini che ho visto, in poi, ho sempre ammirato il suo lavoro. Siamo arrivati quasi a produrre un documentario insieme ma non abbiamo fatto in tempo, perché lui ci ha lasciati prima.

 

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