Incontro ravvicinato con lo scrittore e sceneggiatore Bret Easton Ellis

Il cinema degli anni '70 attraverso sei pellicole che lo hanno colpito, influenzato e commosso

Nella quarta giornata di Festa del cinema di Roma c’è spazio anche per Bret Easton Ellis. Lo scrittore e sceneggiatore americano, classe 1964, è stato protagonista di un incontro ravvicinato, come di consueto insieme al direttore artistico della Festa Antonio Monda.

L’autore di “Meno di zero”, “Le regole dell’attrazione” e “American Psycho”, probabilmente la sua opera più famosa, ha scelto come focus il cinema degli anni ’70, selezionando sei film di quel periodo che, per ragioni diverse, hanno avuto un forte impatto su di lui.

 

Viene proiettata una clip di “Novecento” di Bernardo Bertolucci (1976)

Bret Easton Ellis: Lo vidi per la prima volta in tv quando avevo 13 anni, nel 1977, un anno dopo l’uscita e la cosa che mi colpì maggiormente fu la bellezza visiva delle immagini. Il film mi sembrò un folle melodramma un po’ ridicolo, certamente non elegante quanto “Ultimo tango a Parigi” o “Il conformista”, eppure l’ho sempre preferito a quelle pellicole. È un esempio del piacere che può dare il cinema: ha un cast stellare ed è sexy. C’è una scena molto erotica tra Dominique Sanda e Robert De Niro che all’epoca mi impressionò molto, ma che a rivederla adesso non è poi così audace. E poi ci sono scene “forti”, come quella di sesso a tre con una prostituta epilettica, e di violenza, anche brutale, come l’uccisione di un bambino e quella di un gatto. A farne un capolavoro la fotografia di Storaro e le musiche di Morricone.

 

Viene proiettata una clip di “Il lungo addio” di Robert Altman (1973)

Ellis: Anche questo film, come “Novecento”, l’ho visto su Z Channel, una sorta di precursore di HBO che, almeno nei primi anni, trasmetteva solo nell’area di Los Angeles, mandando in onda i più grandi film di recente uscita. Mi è piaciuto così tanto che poi l’ho rivisto almeno 20 o 30 volte.

Monda: Altman, nella trasposizione, apporta dei cambiamenti al racconto originale di Raymond Chandler. Da autore credi sia giusto rimanere fedeli al testo oppure ci si possono prendere delle libertà?

Ellis: Io non credo si debba rimanere necessariamente fedeli al libro, ciò che conta è mantenerne lo spirito e i toni. Anche Roger Avary che ha curato la trasposizione del mio “Le regole dell’attrazione” ha apportato dei cambiamenti, mantenendo tuttavia integro lo spirito del libro. Il film di Altman – la cui scena iniziale è senza dubbio tra le mie preferite – fu odiato sia dalla critica sia dagli studios, soprattutto per come viene presentato il personaggio di Marlowe, tanto che ci volle del tempo perché dalla West Coast raggiungesse New York. Molti lo hanno visto come un “tradimento a Chandler”, ma io penso che questa ridefinizione non faccia che attualizzare la storia. Il film è forse una delle migliori pellicole dell’epoca che ritraggono una Los Angeles notturna. E come dimenticare la musica? In tutto il film scorre lo stesso brano nelle sue differenti versioni che diventa una sorta di leitmotiv capace di tenere insieme la narrazione.

 

Viene proiettata una clip di “Shampoo” di Hal Ashby (1975)

Monda: Cosa ti ha colpito di questo film?

Ellis: È al contempo un film sofisticato, dark e divertente, probabilmente una delle migliori commedie americane di quegli anni. Uscì nel ’75 ma in realtà era stato girato nel ’69, ambientato nella notte delle elezioni. È un film su un gruppo di persone insoddisfatte, tutte in qualche modo connesse a un parrucchiere.

Monda: Come mai hai scelto proprio questo regista che dopo un breve periodo di successo è finito nel dimenticatoio?

Ellis: Ashby a differenza degli altri era un hippy, un vero hippy, un outsider, un iconoclasta. E poi è morto giovane, per cause connesse all’abuso di droghe e questo ha creato intorno a lui un “alone di sentimentalismo”.

 

Viene proiettata una clip di “Lo sguardo di Satana” di Brian De Palma (1976)

Ellis: Si tratta probabilmente di uno dei migliori adattamenti dei libri di Stephen King. Tuttavia, come Kubrik con “Shining”, anche De Palma parte dal libro di King per esplorare le proprie ossessioni e i propri mostri e, con quest’opera, eleva il genere horror. È un tipico esempio di film in cui non conta tanto la storia ma come essa viene raccontata. Nelle mani di un altro non sarebbe stato nulla.

 

Viene proiettata una clip di “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich (1971)

Monda: Un altro regista che ha avuto una rapida ascesa ma che, dopo un paio di flop, uniti a tragiche vicende personali è un po’ uscito di scena.

Ellis: Avendo fatto un film come “L’ultimo spettacolo”, il secondo film più bello di quegli anni dopo “Il Padrino”, credo non si possa parlare di una “vita tragica”. Peter era il regista meno influenzato dal cinema europeo classico degli anni ’50 e ’60, che era un po’ l’essenza della nuova Hollywood, e i suoi film del biennio 1967-68 sono molto diversi da quelli della metà degli anni ’70. “L’ultimo spettacolo” – soprattutto rivedendo la scena del bacio che mi fa quasi piangere – penso sia il film più triste dei suoi.

 

Viene proiettata una clip di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg (1977)

Ellis: Nel 1977, quando uscì, andarlo a vedere fu quasi un’esperienza mistica. Come commentò un critico all’epoca, uscivi dalla sala provando speranza nei confronti degli alieni. Queste scene di personaggi che sorridono di fronte agli alieni erano commoventi e facevano sperare nel futuro. C’è tuttavia un lato più oscuro, perché è un film che tratta anche di un baby boomer scontento che per cercare di migliorarsi lascia la famiglia, segue questi ufo e scompare. Sullo sfondo c’è anche il caso Watergate, l’insoddisfazione degli anni ’70.

 

L’incontro si chiude con “Manhattan”, capolavoro di Woody Allen del 1979.

 

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