Una serie di Jonas Åkerlund. Con Bill Skarsgård, Alicia Agneson, Vilhelm Blomgren, Sandra Ilar, Hanna Björn. Azione. Svezia. 2022
Il crimine non paga, recita il detto. Ma se solitamente la saggezza popolare si è dimostrata fonte di ottimi consigli e spunti, per scrivere le mie recensioni, nel caso della miniserie “Clark”, disponibile su Netflix dal 5 maggio, ho qualche difficoltà ad applicarla.
Manco a dirlo, non conoscevo le imprese del rapinatore Clark Olofsson, vera star del crimine in Svezia, capace di delinquere felicemente quanto impunemente per oltre trent’anni. E non sapevo nemmeno che la famigerata sindrome di Stoccolma dovesse il suo nome a un episodio a lui legato.
Ma andiamo con ordine, perché mai come in questo caso le apparenze ingannano e la verità è difficile da distinguere dalle menzogne.
Come recita la didascalia all’inizio di ogni episodio dei sei che compongono la miniserie, “Clark è “una storia basata su verità e bugie”. Chi è davvero Olofsson? Un criminale cresciuto in una famiglia disagiata, con una madre pazza e un padre ubriacone e violento? Un bambino vittima di violenze fisiche e psicologiche?
Come dice lo stesso protagonista, voce narrante impenitente di questa storia, fin da piccolo ha avuto le idee chiare su quali fossero le sue priorità e le sue passioni: la libertà, i soldi e le donne. Fin da ragazzo, dimostra un particolare talento nel manipolare, ingannare e sfruttare le debolezze altrui. Dietro una faccia d’angelo, si nasconde un cinico opportunista, a cui non importa di niente e nessuno eccetto se stesso.
Non era semplice indossare gli scomodi e controversi panni di Olofsson, trovando la chiave giusta per suscitare empatia nello spettatore. Bill Skarsgård (già apprezzato in “Anna Karenina”, “Atomica bionda” e soprattutto nelle due parti di “IT”) ci è riuscito alla grande, compiendo un magistrale lavoro di immedesimazione.
“Clark” è un biopic atipico sul piano strutturale e stilistico in cui si alternano momenti comici, drammatici e grotteschi, e dove non viene mai meno il tono ironico e provocatorio. Questa scelta contribuisce alla riuscita del progetto, spiazzando lo spettatore, diviso tra una sorta di ammirazione e l’incredulità di fronte alle azioni di Clark – Arsenio Lupin svedese ma tutt’altro che gentiluomo.
La svolta all’ascesa criminale di Clark, che negli anni passava da una condanna all’altra, diventando però anche un volto paradossalmente amato dal pubblico, arriva nell’agosto 1973, quando Jan-Erik Olsson decide di rapinare una banca di Stoccolma. Per il rilascio degli ostaggi, il rapinatore chiede tre milioni di corone, una macchina, dei giubbotti anti-proiettile e il rilascio del suo amico e mentore Clark Olofsson.
Il sequestro durò sei giorni, durante i quali gli ostaggi stabilirono un rapporto insolito con i loro carcerieri, descritti poi come gentili e premurosi. In seguito, il criminologo Nils Bejerot coniò l’espressione “sindrome di Norrmalmstorg” (dalla piazza dove si trovava la banca), poi diventata “sindrome di Stoccolma”.
Clark Olofsson si auto-definisce un personaggio, parla di sé in terza persona, evita il più possibile di raccontare la verità sulla sua famiglia e sulle relazioni sentimentali bruscamente interrotte. Nulla sembra scalfire la sua granitica arroganza, fino a quando, negli ultimi episodi della miniserie, la morte dei genitori e la nascita del terzo figlio incrina forse il suo mondo dorato.
Lo scambio finale in carcere tra Clark e la scrittrice che per oltre un anno e mezzo ha raccolto materiale sulla sua vita racchiude appieno il senso della storia, lasciando allo spettatore l’ultima parola sulla vite e le opere di questo rapinatore vanesio e indimenticabile.