Subito dopo la cerimonia di premiazione della Berlinale, ho deciso di sfidare gli elementi e di andare ad assistere alla conferenza stampa dei vincitori.
Non mi aspettavo certo una gran folla, ma trovare la sala stampa semi-buia e pressoché deserta è stato comunque alquanto deprimente. Mi è tornato alla mente, improvviso, il ricordo di un altro festival, la Biennale di Venezia 2017: tutti di corsa a mettersi in coda per la conferenza stampa finale, affannati, accaldati e soprattutto curiosi di vedere e ascoltare i vincitori.
Sembra un altro mondo, quello dell’epoca pre-pandemia, che a volte fatico a ricordare. Certo è che il contatto umano è mancato in questa edizione del festival berlinese, e mi sembra che la sua mancanza abbia implicato un ridotto coinvolgimento emotivo da parte dei giornalisti.
La stessa sala stampa, che era da sempre un luogo dove scambiarsi opinioni, fare networking e rifocillarsi, si è come ristretta. Niente più schermi che trasmettono interviste, caffè, opuscoli o giornali: tutto ciò che invita a fermarsi a lungo è stato eliminato. E l’atmosfera ne ha risentito.
La conferenza stampa finale è stata un evento lento e sottotono, ma ha avuto i suoi lati positivi: mi ha dato modo di osservare con calma i vincitori uno per uno, di apprezzare la spumeggiante solarità di Meltem Kaptan (migliore attrice protagonista) e di scoprire che Hong Sangsoo (Orso d’argento gran premio della giuria) parla molto bene inglese.
Ogni vincitore è stato salutato dall’applauso educato di poche decine di mani e ha risposto a un paio di domande. All’uscita, sembrava che gli addetti ai lavori non vedessero l’ora di chiudere la baracca e andarsene a casa. Ho detto “Gute Nacht” alla guardia semi-nascosta dall’oscurità e sono emersa nella strada fredda. Camminando piano tra i poster della Berlinale verso la fermata della metropolitana, tutto mi è sembrato vagamente surreale.