Quando un romanzo che ha venduto una cosa come 12 milioni di copie impiega oltre 2 decadi per diventare un film, è naturale che intorno alla pellicola si creino delle aspettative che definire alte sarebbe un eufemismo.
Il libro “The giver” di Lois Lowry, uscito per la prima volta nel 1993, ha cavalcato l’onda della distopia young adult prima che questo genere diventasse una moda (prima di “Divergent“, “Hunger Games” e via discorrendo).
Dopo una serie innumerevole di lettori e diverse scenografie scartate, il film che arriva nelle sale per la regia Phillip Noyce ci mostra una società futuristica che persegue l’uniformità più assoluta attraverso la monotonia e un ragazzo che sfida questa situazione statica, chiedendosi in ultima battuta se una vita può definirsi degna di essere vissuta se si esclude ogni tipo d’amore e di emozione.
Diversamente dai lavori di Suzanne Collins e Veronica Roth, in questo mondo l’accento viene posto sull’introspezione invece che sull’azione, per mostrare comunque le derive negative a cui può arrivare un’utopia.
Ma sul grande schermo troviamo più di questo: un set minimalista, un triangolo amoroso, un finale alterato. Inevitabilmente i puristi della conservazione della trama originale avranno da ridire sull’adattamento. Curiosi di sapere perché?
Riprendendo un pezzo dell’Huffington Post, vediamo in cosa la pellicola differisce dal libro della Lowry.
1 . Il modo in cui il film mostra la società e il mondo di “The Giver” somiglia più a un riepilogo che a una vera e propria descrizione
Ogni adattamento cinematografico di un libro deve destreggiarsi tra due compiti: ricostruire le atmosfere del romanzo per chi lo ha letto, e creare un mondo del tutto nuovo e credibile per chi non l’ha fatto. All’inizio della pellicola è nettamente il primo piano a prendere il sopravvento. La società viene presentata in modo sommario, veloce, come se stessimo ricapitolando qualcosa. La cerimonia dei 12 anni, nel corso della quale il protagonista Jonas viene assegnato al ruolo che dovrà sostenere tuta la vita, arriva nel libro dopo circa 200 pagine, qui invece apre praticamente il film. Si ha come la sensazione di non aver avuto il tempo di apprezzare il nuovo mondo e di capire bene dove ci troviamo, quando arriva questo punto di svolta.
2. Bianco e nero, e colori
Un mondo in bianco e nero, che riflette l’incapacità delle persone di provare emozioni e sentimenti e di percepire la diversità nella realtà circostante, quando si legge un libro fa un certo effetto. È un’idea innovativa, estrema sotto molti punti di vista. Pensate adesso di vedere la stessa soluzione tradotta in immagini… Da spettatori del XXI secolo, un film senza colori ci fa uno strano effetto, abbiamo come la sensazione che manchi qualcosa. Anche il modo con cui Jonas inizia a percepire il rosso, il giallo, il verde non ha lo stesso impatto che nel libro. È tutto meno poetico, meno d’impatto – anche se dovrebbe essere l’opposto, visto che solitamente le immagini rendono meglio delle parole i concetti visivi.
3. Non tutte le performance sono incisive allo stesso modo
Non è semplice valutare la recitazione in “The Giver”, perché l’intera storia ruota intorno al fatto che questa è una società rigida e priva di emozioni. Quando persino la parola amore è antiquata, come riuscire a dar vita a personaggi pluridimensionali? Per molti l’impresa è difficile: Thwaites riesce a far trasparire la reazione di Jonas davanti alla prima esperienza di cose come la neve, gli animali, la guerra, ma le performance degli altri giovani – Rush, Taylor Swift e Cameron Monaghan, che interpreta Asher, l’amico del protagonista – non sono molto incisive. Persino Meryl Streep, nella prima apparizione come ologramma, non ha molto mordente. Quando poi compare di persona, però, l’attrice risulta più che intensa. L’interpretazione di Bridges del Donatore ha anche lei dei problemi: con la sua freddezza non riesce a coinvolgere lo spettatore. È vero che il calore non è previsto neppure nel libro, ma se parliamo di un personaggio che dovrebbe avere in sé qualcosa di eroico… Non parliamo neppure di Katie Holmes con i suoi “Jonas, precisione di linguaggio”, che è innaturale come non mai.
4. Il film è troppo breve
Il regista sarà stato preoccupato che, dopo 21 anni di attesa, ci saremmo annoiati? In 94′ minuti la pellicola non riesce proprio a tenere il passo con la ricca mitologia creata dalla Lowry. Il pubblico non si immerge abbastanza nei rituali della comunità (il racconto mattutino dei sogni avuti nella notte, la condivisione, i passaggi dei bambini alle varie età). La velocità della storia ci distanzia da quello che non viene mostrato in modo esplicito, come se stessimo solo osservando e non vivendo questo nuovo mondo – l’opposto di quello che dovrebbe provocare un racconto distopico ben congegnato.
5. La terza parte è diversa dal libro (con tanto di introduzione di una storia d’amore), ma per fortuna non è troppo angosciante
Chiunque fosse in cerca di un triangolo amoroso alla Twilight – o alla Hunger Games – deve rassegnarsi. Perché in questa società non hanno alcuna dimestichezza con cose come i baci e il romanticismo, e lo stesso Jonas capisce di essere attratto da Fiona (che tra parentesi assurge al ruolo di co-protagonista, mente nel libro è solo una figura sullo sfondo) solo dopo aver ricevuto memorie che spigano quello che sta provando. Il ragazzo le mostra poi cosa sia un bacio, il che potrebbe creare aspettativa, ma tutto questo è relegato nella terza parte del film e non soppianta minimamente l’azione che è tanto funzionale alla storia. La pellicola, inoltre, riesce a evitare di dare troppo spazio all’angoscia dell’amore contrastato – che ha tanto peso in altri adattamenti di romanzi young adult.
6. Si batte in modo troppo opprimente sul mantra “la vita è bella”
Uno dei motivi per cui lo stile della Lowry è così apprezzabile è che è filosofico senza suonare moralista. Lo stesso non si può dire, purtroppo, del film, specialmente nel passaggio di memorie a Jonas – dove vediamo immagini meravigliose di nascite, morti, ricorrenze varie in flash successivi che fanno tanto “L’albero della vita”. Anche sul finale abbiamo una sovrabbondanza di rimandi alla bellezza dell’esistenza – come se ci dovesse venir ricordato quale sia il senso della storia. Vivere da uomini è meraviglioso, ma forse accennare soltanto al tema e far sì che sia il pubblico a trarre questa conclusione – come succede ai lettori del libro – sarebbe stato meglio.
Curiosi di vedere il film “The giver – Il mondo di Jonas”? Non dimenticate di farci sapere cosa ne pensate e soprattutto, per i lettori, quali sono a vostro avviso le maggiori differenze tra pellicola e scritto.