di Amira Dridi
Un film di Aki Kaurismäki. Con Sherwan Haji, Sakari Kuosmanen, Ilkka Koivula, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu. Drammatico, 98’. Finlandia 2017
Dopo “Miracolo a Le Havre”, il regista Aki Kaurismäki torna a parlare di immigrazione, e lo fa con la sua consueta ironia finnica e poetica, mostrando situazioni surreali quanto attuali.
“L’altro volto della speranza” è stato presentato al Festival del cinema di Berlino, ottenendo buoni riscontri, ed è uscito nei cinema italiani ad aprile.
Khaled (Haji) è un rifugiato siriano sbarcato a Helsinki quasi per caso, dopo essere scappato da Aleppo a causa dei bombardamenti e della guerra. Nel lungo viaggio alla ricerca di un posto sicuro ha perso ogni traccia della sorella, unica sopravvissuta della sua famiglia. In Finlandia ha fatto domanda di asilo politico, senza grandi possibilità di ottenerla.
Wilkström (Kousmanen), invece, è un commesso viaggiatore che vende cravatte e camicie da uomo. Un giorno decide di lasciare tutto, compresa la moglie, e dopo una mano fortunata a poker di rilevare un ristorante in decadenza in periferia.
I destini dei due s’incroceranno e per quanto improbabile possa sembrare stringeranno un legame che nessuno dei due dimenticherà.
Nonostante la trama possa apparire quasi banale, il modo con cui il regista l’ha declinata colpisce. Kaurismäki, infatti, si mantiene per quanto possibile distaccato dal pubblico. Qui non si vuole commuovere, ma raccontare, mostrare uno spaccato di realtà.
Dalla nostra Italia caotica e in perenne stato di crisi sul tema dei rifugiati guardiamo ai Paesi del Nord come a una sorta di paradiso. In realtà anche qui la situazione, per un richiedente asilo, non è semplice.
Ma se da un lato c’è la burocrazia, rigida, preposta teoricamente ad aiutare ma incapace di trasmettere un vero senso di sicurezza, sono le persone comuni, quelle che Khaled incontra nel suo percorso, a rivelarsi davvero preziose.
Ancora una volta, non è l’abito a fare il monaco: soggetti all’apparenza inaffidabili o indifferenti possono rivelarsi migliori di funzionari in giacca e cravatta.
Straordinario è poi il modo con cui il regista riesce a fondere ironia sottile e toni da tragedia, musica rock e blues a una Finlandia descritta come profondamente legata alle proprie consuetudini, tradizioni e silenzi.
Alla leggerezza della “Pinta d’oro”, il ristorante rilevato da Wilkström, che pur di attirare clienti assume aspetti culturali differenti – dal sushi bar all’indiano – fallendo ogni volta, si giustappongono scene di violenza senza precedenti, in una società ancora parzialmente razzista che non può fare a meno di perseguitare il diverso come Khaled.
I dialoghi sono scarni, ma efficaci, alcune battute particolarmente riuscite.
Il film è anche ricco di dettagli che rimandano al passato, quasi a voler sottolineare come la modernità non incida su alcuni elementi di base della condizione umana. E che la speranza di un’Europa senza muri torna a emergere dal nostro ieri – Berlino, 9 novembre 1989 vi dice qualcosa? -, attraversa l’oggi e condurrà, ci auguriamo, a un futuro migliore.