“Nome di donna”: femminilità e diritti negati nel nuovo film di Giordana

Cristiana Capotondi e Valerio Binasco in un film che si ispira a un fatto di cronaca degli anni '90

Un film di Marco Tullio Giordana. Con Cristiana Capotondi, Valerio Binasco, Stefano Scandaletti, Michela Cescon, Bebo Storti. Drammatico, 90′. Italia, 2018

Nina Martini (Capotondi) cerca lavoro e fortuna in Brianza, dove si trasferisce con la sua bambina. In prova presso una residenza per anziani, il suo zelo le vale un’assunzione e una vita finalmente più serena. Ma la quiete ritrovata è interrotta dalle avance e l’abuso di potere del direttore della struttura. Decisa a denunciarlo, Nina deve fare i conti con l’omertà delle colleghe e la prepotenza di un sistema amministrativo conservatore e dispotico. Con l’aiuto del suo compagno e di un avvocato agguerrito, riuscirà ad avere giustizia, per sé, per sua figlia e per tutte le donne a venire.

 

Una donna vittima di molestie o, peggio, femminicidio può essere considerata colpevole e non soltanto vittima? Per come si veste, magari, oppure per i suoi atteggiamenti, per il suo modo di vivere? Nel 2018 pensieri come questi non dovrebbero esistere, eppure puntualmente qualcuno li ripropone, magari davanti all’ennesimo fatto di cronaca.

Negli ultimi mesi il tema delle molestie subite dalle donne sul posto di lavoro è tornato al centro del dibattito internazionale, a seguito dello scandalo Weinstein che ha scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora.

Si potrebbe dibattere a lungo sul perché le accuse mosse da personaggi famosi facciano più rumore rispetto a quelle, medesime, di persone normali. In ogni caso si torna a parlare con insistenza di diritti femminili, e Tiziana Maianardi ha sentito l’urgenza di scrivere la sceneggiatura di “Nome di donna”, per spingere l’opinione pubblica a considerare il problema in una prospettiva più ampia.

“L’idea era quella di guardare alla condizione della donna nel mondo del lavoro, escludendo le discriminazioni più macroscopiche, come la disparità salariale, per concentrarsi invece su quelle più sottili – ha spiegato la Mainardi in conferenza stampa. – Secondo uno studio Istat in Italia metà delle donne tra i 14 e i 65 anni hanno subito molestie o ricatti sessuali sul luogo di lavoro”.

Il film diretto da Marco Tullio Giordana prende spunto da un caso di cronaca degli anni ’90, che accese un forte dibattito ed ebbe un ruolo fondamentale nel trasformare la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona (1996).

Uno dei grandi meriti di “Nome di donna” è di raccontare, attraverso la storia di Nina (Capotondi) e del suo datore di lavoro Marco Maria Torri (Binasco), come da un lato l’omertà e la paura di denunciare siano forti in tutti gli ambiti della società, dall’altro il timore di restare senza lavoro possa trasformarsi in un’arma di ricatto nelle mani di personaggi senza scrupoli.

Sembra quasi che, per poter esercitare il diritto di lavorare, una donna sia costretta a sopportare di tutto. Emblematica in questo senso la scena dove la vecchia Ines (Asti) commenta il licenziamento di Nina dopo che lei ha denunciato i tentativi di violenza con le parole: “Ai miei tempi si chiamavano complimenti!”.

Marco Tullio Giordana firma una regia lineare, precisa, puntigliosa, magari di respiro  più televisivo e senza particolari guizzi, ma che offre comunque un prezioso contributo su una tematica spinosa, nonostante venga affrontata in modo un po’ troppo politically correct.

“Nome di donna” convince nella prima parte, dove emergono bene le criticità e le contraddizioni del mondo del lavoro, per poi perdersi in una seconda parte meno strutturata, più semplicistica e banale.

Valerio Binasco in una scena del film. “Nome di donna” (2018)

Cristiana Capotondi e Valerio Binasco sono protagonisti degni di questa storia, capaci di dare ai rispettivi personaggi autenticità, personalità e carisma, e a tramettere sensazioni opposte ma comunque intense.

Merita una menzione speciale la veterana Adriana Asti, capace d’illuminare la scena con la sua ironia, la sua presenza scenica e il suo immenso talento.

Per debellare la sciagurata piaga sociale che è la violenza sulla donna sul posto di lavoro – e non solo lì – c’è ancora molto da fare, e come ci ricorda l’efficace e agrodolce finale, per una donna che vince la sua battaglia ce n’è un’altra costretta a iniziarla.

 

Il biglietto da acquistare per “Nome di donna” è:
Nemmeno regalato. Omaggio. Di pomeriggio. Ridotto. Sempre.

 

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