Intervista al regista Lucio Viglierchio

Siccome il vostro cronista è una persona curiosa, dopo aver visto il documentario (qui trovate la recensione su Parole a Colori) ho voluto incontrare il regista Lucio Viglierchio per conoscere meglio lui e soprattutto la “nostra” amica Sabrina, protagonista di “Luce mia”.

Lucio VIglierchio e Sabrina, in una scena di Luce mia
Lucio VIglierchio e Sabrina, in una scena di Luce mia

Viglierchio è molto richiesto dai colleghi giornalisti, dalle radio e dalle Tv, eppure è sempre sorridente e gentile nel rispondere, dimostrando una grande serenità, figlia probabilmente della sua esperienza di vita.

Riesco a fargli un paio di domande al volo, prima che inizi la conferenza stampa.

Prima si pensava che il dolore e la malattia in TV non facessero audience e, anzi, allontanassero il pubblico (tolto qualche caso fortunato come “” con Massimo Da Porto). La serie “Braccialetti rossi”, incentrata su giovani malati, sta riscuotendo un grande successo. Questa ripresa d’interesse per il tema l’ha in qualche modo motivata?

A dire il vero della serie “Braccialetti rossi” ho visto solo poche scene, non ho voluto farmi condizionare, anche se all’inizio non pensavo di fare un film. Prima ero concentrato su me stesso e sulla mia malattia. Quando si è malati si tende a essere centrati solo su stessi. Solo dopo, tornando alla vita, ho sentito la necessità di raccontare questa mia esperienza. Per me è stato come compiere un percorso terapeutico. Dopo la malattia sentivo di non essere più lo stesso, mi sembrava di gustarmi ogni felicità a metà. Tornare in ospedale è stato quasi catartico, e accompagnare Sabrina nel suo percorso è stato qualcosa di unico e intenso.

Il documentario “Luce mia” racconta con garbo il commovente viaggio di Sabrina, una donna malata di leucemia. Pensa che il pubblico sia pronto a una storia come questa?

Penso che lo scopo del film sia di ridurre la distanza. E penso di esserci riuscito con Sabrina. Sabrina mi ha chiesto di fare un percorso insieme con lei. Durante le riprese non pensavo al film, ma ai momenti vissuti insieme. C’erano i giorni buoni in cui era bello girare, ma anche quelli brutti, dove non c’era la voglia di girare proprio nulla.

Sabrina, nell’intenso finale, la invita ad andare avanti nel progetto, anche se non dovesse esserci lei. Se fosse un film, diremmo che è la scena clou, invece purtroppo è vita vera. Perché ha scelto Sabrina? Che cosa ha visto in lei? E secondo lei, come avrebbe voluto Sabrina il finale?

Con Sabrina ne avevamo parlato: il finale sarebbe stato noi due insieme in bicicletta, perché i malati amano pedalare. Ho scelto Sabrina perché cercavo uno specchio, cercavo qualcuno che avesse le mie stesse paure. C’erano delle corrispondenze biografiche, tra noi, che mi hanno spinto a sceglierla. Non era scontato che Sabrina accettasse. Ha avuto coraggio a esporsi, a condividere se stessa e la sua anima con il mondo.

Nel film racconta che la sua vita è divisa nettamente tra un prima e un dopo la malattia.

La malattia rompe il tuo equilibrio, è vero. Per questo nasce il desiderio di ritrovarlo, e la guarigione è forse il ritorno alla primaria condizione.

C’è una parola che si sentirebbe di dire, essendoci passato, alle persone colpite da queste terribile malattia?

Non sono bravo a dare consigli. Ogni persona ha un modo di reagire differente. Posso solo invitare le persone colpite da questo tsunami emotivo chiamato il cancro a non perdere la speranza e a non mollare mai. Perché è possibile ridurre la distanza e tornare alla vita, com’è capitato a me.

Quali reazioni si aspetta dalla visione del suo documentario? Teme che qualcuno possa accusarla di spettacolarizzazione del dolore?

Io ho mostrato il corpo. La prima scena del film è volutamente quella della mia biopsia. Non ho portato in scena attori, bensì il mio dolore e la storia di Sabrina che non può lasciare indifferenti.


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