L‘attore Elio Germano, fresco vincitore dell’Orso d’argento alla Berlinale come migliore attore per “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti, è stato protagonista qualche giorno fa di una bella masterclass allo Shorts International Film Festival, insieme al produttore e art director Omar Rashid.
Noi di Parole a Colori non ci siamo fatti scappare l’occasione di partecipare, seppure da remoto, all’evento.
Ciao Elio. In passato hai dichiarato: “Non sono un attore, faccio l’attore” e hai definito la tua professione un mezzo di trasporto. Lo confermi?
Spiegarsi è sempre difficile, ma in questo caso sento di poter confermare le mie affermazioni. Faccio l’attore significa che la recitazione è un mestiere come gli altri. Quando lavoro faccio l’attore, ma fuori dal set mi muovo su altre direzioni, anche lontane dal campo artistico. Tengo molto alla mia indipendenza fisica e mentale. Per quello che riguarda la seconda definizione, per me l’abilità di un interprete si misura dalla sua capacità di trasportare lo spettatore dentro il film. L’attore funziona se riesce a “sparire” nel personaggio, a far dimenticare la sua presenza al pubblico. Immaginate l’attore come un’auto: se un’auto fa rumore significa che non funziona bene. Nel caso della recitazione, se lo spettatore smette di vedere il personaggio e si concentra sull’attore significa che c’è qualcosa che non va.
A proposito di auto, nel 2003 hai interpretato un giovane Enzo Ferrari in una miniserie televisiva. Bella emozione guidare una Ferrari, no?
Se è per questo ho guidato altre cinque Ferrari d’epoca quando ho interpretato il boss Felice Maniero nella miniserie “Faccia d’angelo”.
Nel film “Volevo nascondermi”, che ti è valso l’Orso d’argento alla Berlinale, interpreti un inquietante quanto potente Ligabue. Cosa ha significato per te questo ruolo?
È stato una grande sfida, un impegno lungo due anni. La lavorazione è stata divisa in due fasi: una estiva e poi una invernale, dopo sei mesi di stop. Ogni giorno, prima di girare, dovevo sottopormi ai sei ore di trucco. Ma è stato proprio il trucco a convincermi ad accettare il ruolo. Non ero sicuro di riuscirci a calarmi nella parte, ma poi quando abbiamo iniziato a provare Lorenzo Tamburini (chimico e truccatore) aveva addosso la “faccia” di Ligabue e lì ho capito che potevo lanciarmi in questa “dimenticanza attoriale”. Speriamo che il film sia amato dal pubblico, al suo ritorno in sala.
Il 2020 è stato anche l’anno di “Favolacce” dei fratelli d’Innocenzo, una favola nera, un film complesso, straordinario. Com’è stato partecipare al progetto?
Non riesco mai a capire a prescindere se il film funziona, è il confronto con lo spettatore in sala che mi fa capire se il lavoro sul set ha pagato o meno. Ho uno splendido ricordo del set e del lavoro fatto con i fratelli D’Innocenzo. Sono dei veri cineasti, dei veri artisti, capaci di mettere in campo anche le loro fragilità e le loro debolezze, fregandosene di date d’uscita e festival.
“Favolacce” mette in evidenza la crisi della mascolinità. Tu cosa ne pensi?
Purtroppo la crisi della mascolinità ha investito, paradossalmente, anche la donna, che oggi cerca di somigliare all’uomo, anziché avvicinare l’uomo alla donna. Viviamo in una società che non permette di essere fragili, ma impone delle restrizioni che producono disastri umanitari. Come attore ho il privilegio di poter piangere liberamente. Nella mia vita privata non posso farlo.
Hai lavorato con quarantacinque registi, per citarne alcuni Daniele Luchetti, Giovanni Veronesi, Carlo Vanzina. Hai fatto film molto diversi, potenti. Sei un attore che si mette alla prova, onnivoro, oppure sono i registi e le nuove strade a cercarti?
Onnivoro no. Non mi piacciono gli attori che vivono solo per il lavoro; quando non sono sul set io ho il lusso di potermi dedicare ad altro nella vita. Curiosità e duttilità sono frenati dal desiderio di prendermi delle pause, talvolta. E sul lavoro, posso scegliere, ulteriore privilegio del mio mestiere.
Nel 2007 hai fondato con altri artisti, la società di collecting (cioè di raccolta e di distribuzione fatta dagli artisti per gli artisti) 7607. A oltre dieci anni dalla nascita, cosa pensi di questo progetto e me valuti che sia la situazione italiana?
La nostra è stata soprattutto una battaglia di comunicazione, d’informazione. Volevamo far capire ai colleghi che avevano la possibilità di far valere i propri diritti grazie alle leggi europee. Purtroppo, ancora oggi, molto colleghi non conoscono i propri diritti. In concreto, utilizziamo le risorse dei diritti televisivi per pagare provini, anche on-line, showreel, consulenza legale.