Un film di Lee Chang-dong. Con Steven Yeun, Yoo Ah-In, Joong-ok Lee. Drammatico, 148′. Corea del sud 2018
Jong-soo, un lavoratore part-time, incontra Hae-mi, compagna di scuola nel paese di origine. Hae-mi, che lui un tempo considerava brutta e che ora è una bella ragazza, gli si concede e lui se ne innamora. Lei gli chiede di occuparsi del suo gatto nel suo appartamento mentre è in viaggio in Africa. Quando Hae-mi ritorna gli presenta Ben, un ragazzo misterioso che ha incontrato nel corso del viaggio.
Il regista Lee Chang-dong non è un volto nuovo a Cannes. Con le sue precedenti partecipazioni al festival ha portato a casa il premio per l’interpretazione femminile a Jeon Do-yeon, protagonista di “Secret Sunshine” (2007), e quello per la miglior sceneggiatura per “Poetry” (2010).
Quest’anno, il coreano punta alla Palma d’Oro con “Burning – L’amore brucia”, liberamente ispirato a un racconto di Haruki Murakami, “Barn Burning”.
Il film si presenta inizialmente come un semplice dramma romantico, con il protagonista Jong-soo, taciturno aspirante scrittore, che si imbatte in Hae-mi, una ragazza del suo stesso villaggio che non vedeva da quando erano bambini, allegra, loquace e affamata di vita.
L’attrazione c’è, la parvenza di un triangolo amoroso pure, e lo spettatore crede di riuscire a indovinare in che direzione andrà la storia. Ebbene, no. Dopo un bucolico tramonto con vista sul confine nordcoreano e assurde conversazioni sotto l’effetto della marijuana, “Burning – L’amore brucia” prende tutt’altra piega: si trasforma in un thriller psicologico, che cresce insieme all’angoscia di Jong-soo.
Le persone possono svanire nel nulla? E i gatti che non si vedono esistono davvero? Le serre possono essere bruciate senza lasciare traccia? Ma soprattutto, cosa si nasconde dietro ai sorrisi del facoltoso Ben, il nuovo amico di Hae-mi?
Tutti questi interrogativi, aggiunti ai problemi familiari, tormentano il giovane protagonista che comunque non perde mai l’aria spaesata di uno che è capitato sulla terra per caso, e non ci regala mai nemmeno un mezzo sorriso – non che abbia molti motivi per sorridere, poveretto.
I pochi dialoghi (spesso ermetici) certo non aggiungono ritmo a una sceneggiatura che già di per sé pecca di eccessiva lentezza, e il finale spiazzante arriva dopo un’attesa troppo lunga.
C’è sicuramente da apprezzare l’abilità del regista di far evolvere la storia in una direzione imprevedibile, e forse anche di far sentire lo spettatore sconcertato a fine proiezione. Le domande ottengono solo risposte intuite e le mostruosità di cui l’uomo è capace vengono sottoposte a una inaspettata giustizia sommaria. Ma alla fine, con tutto questo mistero, non ci è ben chiaro che cosa volessero raccontarci.