“The reason I jump”: intervista al regista Jerry Rothwell e al produttore Jeremy Dear

Il docu-film, presentato alla Festa del cinema di Roma, racconta l'autismo dalla prospettiva dei ragazzi che ne soffrono

di Sabrina Sciabica

 

Storie intrecciate di ragazzi provenienti da tutto il mondo – un giapponese, un inglese, una indiana, due americani – per parlare di autismo dalla prospettiva di chi soffre di questa sindrome.

Il docufilm “The reason I jump” diretto da Jerry Rothwell, già vincitore del premio del Pubblico World Cinema Documentary al Sundance Film Festival 2020, è stato presentato all’ultima Festa del cinema di Roma.

A colpire, rispetto a precedenti opere che toccano lo stesso tema, l’approccio usato per descrivere questa “neuro diversità”: lo spettatore viene infatti immerso nel mondo dei protagonisti, fino a sentirsi partecipare delle loro sensazioni.

Per approfondire i vari aspetti del film, abbiamo avuto il piacere di intervistare il produttore Jeremy Dear e il regista Jerry Rothwell.

 

Cosa ti ha convinto a produrre questa pellicola, dato che ruota intorno a un tema già affrontato molte volte in passato?

Jeremy Dear: Mi ha convinto, prima di tutto, il fatto che sono il papà di un ragazzo affetto da autismo. Mio figlio Joss, infatti, è uno dei protagonisti. Tutto parte da un libro che abbiamo letto sette anni fa, nel quale un ragazzo autistico, Naoki Higashida, non riuscendo a parlare, scrive di sé, di ciò che pensa, spiegando tanti dei comportamenti che ci sembravano, prima, incomprensibili. Per noi genitori il libro è stato una rivelazione, abbiamo avuto una possibilità in più per capire nostro figlio. E poiché io e mia moglie siamo produttori, abbiamo voluto dare questa opportunità anche al grande pubblico, nonché ad altri genitori. Abbiamo riletto il libro con l’obiettivo di portarlo al cinema.

Nel libro la voce narrante è un ragazzo tredicenne, ma nel vostro film alla sua storia se ne aggiungono altre per mostrare le esperienze, le famiglie, le vite di ragazzi affetti dalla stessa sindrome. Come è arrivato a voi questo libro?

J.D.: Il libro è stato scoperto e tradotto dallo scrittore inglese David Mitchell insieme alla moglie. Anche loro lo hanno un figlio autistico e hanno trovato straordinario questo testo, per cui lo hanno proposto a una casa editrice in modo che le persone potessero capire Naoki. Dalla traduzione inglese è arrivato a noi. E, dopo cinque anni di lavoro, al cinema.

Quello che colpisce della regia, è come sei riuscito a creare delle connessioni perfette tra il mondo interiore dei ragazzi – per la maggior parte di noi impenetrabile e complicato – e le immagini, semplici e rilassanti, del mondo in cui viviamo. Come hai lavorato per trovare le immagini adatte a queste storie?

Jerry Rothwell: Il libro ha una struttura ben precisa. Si tratta di una serie di domande e risposte relative ai comportamenti dei ragazzi affetti da autismo. Proprio come se fosse una guida per orientarsi in un universo a parte, in modo da svelarlo e renderlo comprensibile agli altri. Questo è stato il punto di partenza. A ciò si aggiungono le altre storie per le quali ho voluto mantenere l’ambiente reale nel quale ognuno di loro vive. Quindi ho unito, alla storia del libro, le esperienze di ogni ragazzo, ciascuno nel suo contesto, nella sua cornice sociale. Senza inventare nulla, ho preferito descrivere la loro realtà, utilizzando suoni, immagini, ambientazioni a loro comuni, proprio per mostrare la loro quotidianità. Gli 82 minuti della pellicola sono un’esperienza immersiva, così come Naoki aveva detto del suo libro, “una mappa all’interno della sua mente”. In tal modo, per la prima volta, lo spettatore supererà la soglia di un mondo a lui prima sconosciuto, quello dell’autismo.

Una delle scene che colpisce e commuove maggiormente è quella di una bolla di sapone che rimane incastrata in una rete, prima di volare via. Come è nata e perché?

J.R.: È l’esempio di ciò che spiegavo prima poiché, anche in questo caso, non abbiamo fatto altro che mostrare le azioni dei nostri protagonisti. In particolare, Joss ama fare le bolle di sapone. Mentre riprendevamo questo momento della sua vita, le bolle salivano in aria e una restava incastrata, per poi volare via oltre la rete. La scena è nata casualmente e, magicamente, è diventata metaforica. Come un uccello che finalmente vola, come la liberazione da una costrizione. Un altro divertimento di Joss che vediamo nella pellicola è saltare su un tappeto elastico. Ed ecco spiegato “il motivo per cui salto”. Quando lui salta si sente libero, non sente più il corpo come un peso perché, purtroppo, un disturbo frequente legato all’autismo è quello di non riuscire a gestire i propri movimenti, non avere più il comando di se stessi.

“The reason I jump” sembra voler sollecitare l’empatia degli spettatori, in modo che possano comprendere. L’avevate pensato così?

J.D.: Purtroppo si tende a credere che le persone autistiche non siano normali, non siano neanche esseri umani. Si credeva addirittura che queste persone non avessero capacità di comprendere e invece il paradosso è che siamo noi a non avere empatia verso di loro. Inoltre, è un mondo che non conosciamo ancora bene, per cui è importante parlare di questa neuro diversità, facendo esprimere direttamente chi ne è affetto, mostrando le loro percezioni sensoriali.

I ragazzi hanno trovato vari modi per comunicare: chi disegna, chi salta, chi scrive, chi segna su una tavoletta le lettere per esprimersi a parole, chi si supporta con l’amicizia. I protagonisti hanno un’immensa energia e la esprimono con il sorriso. Quindi il vostro non risulta un film deprimente ma a suo modo gioioso. Siete d’accordo?

J.R.: Volevamo mostrare quanta bellezza c’è, quanta intensità, quanta gioia, in queste esistenze, nonostante l’incapacità di parlare. Non che non ci siano difficoltà, ma Naoki comincia il libro con la domanda sul perché è nato e lo finisce celebrando la “bellezza di essere se stesso”. Il film vuole riprendere esattamente la stessa struttura e trasmettere buoni sentimenti, vitalità, entusiasmo.

J.D.: Sì, lo è. Fino ad oggi, soprattutto nei film, lo stile narrativo dell’autismo è stata la tragedia, come se si trattasse di una malattia da guarire. Eppure quando parli con una persona affetta da autismo lei non si sente malata, anzi, afferma che questa è la sua identità. Naoki scrive di essere fatto così, di non voler cambiare la sua esistenza, di amarsi ed accettarsi proprio per com’è fatto. Indubbiamente si affrontano situazioni difficili, momenti di forte ansia, ma noi abbiamo voluto fare un film che includesse i vari aspetti, raccontando queste storie in modo “olistico”, completo, e sottolineando la gioia di essere vivi, la bellezza di essere se stessi.

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