Intervista allo scrittore Mirco Giulietti

Nel suo esordio "Si moriva dal caldo", edito da Intrecci, mescola giallo, humor e attenta ricostruzione

Per il suo esordio nel mondo della narrativa Mirco Giulietti, marchigiano classe 1964, laureato in giurisprudenza che in passato ha fatto il giornalista e il webmaster, ha deciso di puntare in alto, unendo giallo, spunti umoristici e romanzo storico.

Si moriva dal caldo, edito dalla casa editrice romana Intrecci, infatti, è un romanzo avvincente, da cui non emerge soltanto la figura del giovanissimo protagonista e il “caso”, ma anche un’Italia ormai lontana, quella degli anni ’70, tra musica, politica, fumetti e tanto sport.

Abbiamo parlato con l’autore del suo esordio romanzesco, dell’esperienza editoriale, di com’è stato essere adolescenti in quel periodo storico e di molto altro ancora.

 

Diamo il benvenuto su Parole a Colori a Mirco Giulietti. Per rompere il ghiaccio, una domanda di rito. Com’è arrivato, Mirco Giulietti, alla scrittura e in particolare alla scrittura di “Si moriva dal caldo”? Cosa spinge un laureato in giurisprudenza con un passato nel giornalismo e un lavoro attuale nel settore sanitario a prendere in mano la penna – o sedersi davanti al foglio bianco di Word?

Be’, scrivere mi è sempre piaciuto, anche se, qualche anno fa, dovendo dividere il mondo tra lettori e scrittori mi sarei collocato decisamente tra i primi. Le mie prime prove letterarie sono state dedicate alla storia, più o meno locale. E per un romanzo ambientato negli anni Settanta del secolo scorso, in fondo, valgono quasi le stesse regole, soprattutto per il piacere accessorio che si prova a documentarsi su un epoca. Col vantaggio, naturalmente, che è molto più facile farlo rispetto a, che ne so, l’Alto Medioevo. A “Si moriva dal caldo” sono arrivato un po’ per sfida personale, quasi una scommessa. Volevo vedere se ero in grado di tirare fuori un romanzo dai miei interessi, dalle cose di cui fin da piccolo ero appassionato e che conoscevo meglio, magari combinandole con un genere alla moda, da provare a parodiare. Di detective dilettanti, infatti, ce ne sono stati di tutti i tipi, allora perché non un bambino? E, incredibilmente, devo dire che il giallo si è scritto da solo, dopo un po’ i personaggi hanno cominciato davvero ad agire e vivere di vita propria. Proprio come gli scrittori di professione dicono che succeda.

Nel tuo romanzo, come hai raccontato, convivono un omicidio, un bambino di 10 anni amante del calcio e dei fumetti di Tex, il racconto dell’Italia degli anni ‘70. Un bel po’ di elementi diversi. Sei sempre riuscito a gestire tutto al meglio oppure, in fase di scrittura, ti è capito di pensare di avere esagerato con le suggestioni?

Come ho già accennato prima, credo sia normale, quando ci si confronta per la prima volta con un “progetto ambizioso” affidarsi alle cose che si conoscono meglio, e cosa c’è di più confortante di parlare delle proprie passioni o dei ricordi di bambino (che sono da sempre il fedele sostegno di tutti gli aspiranti scrittori)? Quanto alla carne al fuoco, ti assicuro che nella prima stesura, quasi un’era geologica fa, l’azione del protagonista era letteralmente sepolta sotto un mucchio di inutili e (probabilmente) fastidiose dissertazione di cronaca e costume. Conseguenza del mio amore per la storia, credo, e del bisogno di contestualizzazione. L’amico che lo lesse per primo mi disse, forse per farmi un complimento (ma non ci giurerei): “Sembra un libro di Umberto Eco”. E tra i lettori delle poche case editrici a cui nella mia beata ingenuità l’avevo spedito, ci fu uno che volle incoraggiarmi, invece che con le solite parole di circostanza, scrivendomi che il fatto di averci voluto mettere tutto, ma proprio tutto, aveva fatto perdere tutta la poesia. Peccato perché, aggiungeva, le atmosfere erano ben rese. Come spesso succede, insomma, ho dovuto agire per sottrazione, focalizzando l’attenzione sulle due o tre cose che mi interessavano di più, e sul giallo, dandogli più risalto e spessore. Questo non significa dire che ci sia riuscito in pieno, naturalmente.

Il libro, oltre a essere un giallo ricco di humor, è anche il ritratto dell’Italia degli anni ‘70, tra musica, politica, fumetti e tanto sport. All’epoca avevi dieci anni, cosa ricordi soprattutto di quel periodo della tua vita? E su cosa ti sei basato per la ricostruzione storica, ricordi, documenti d’epoca, testimonianze dirette?

Ricordo soprattutto, oltre al fumo delle sigarette e ai pianti per le sconfitte della squadra del cuore, la passione politica che pervadeva un po’ tutti, anche quelli che allora si dicevano “moderati”, il clima insolito di libertà, di sperimentazione, di fiducia nel futuro, insieme a un certo piacevole permissivismo che già affiorava, per esempio nel rapporto con i figli e tra i sessi, perfino nel modo di intendere la religione. Si era reduci da un quindicennio di boom economico che aveva trasformato molto l’Italia, anche e soprattutto quella rurale a cui apparteneva la mia famiglia. E l’avvisaglia della prima grande crisi occidentale (petrolifera e valutaria) erano ancora solo un pretesto per godersi le domeniche a piedi. Documentarsi sull’epoca non è stato difficile. A reperire informazioni sui fatti o anche su quel “modernariato” alla moda, sempre incline a soddisfare ogni tipo di operazioni nostalgia, basta quasi da solo il web. Quel che mi interessava di più, tuttavia, era ricreare quel mondo e quell’atmosfera dal di dentro, cercando di evitare la “cartolinizzazione” di un’epoca e, se possibile, i cliché. Ricrearla cioè esattamente come si vedeva o si immaginava che fosse dal buco della serratura di quell’ambiente di provincia, come si respirava all’interno di famiglie un po’ chiuse e tradizionaliste come la mia, come veniva filtrata dai convegni dei vicini che, come usava a quell’epoca nei vicinati, nelle nuove periferie, nei paesi, ancora si vedevano la sera davanti a casa, per conversare dei fatti del giorno, rendendoli inevitabilmente agli orecchi di noi bambini, sempre un po’ più maliziosi o misteriosi di quel che erano veramente. E qui certo i ricordi, o l’“impressione” dei propri ricordi, sono stati importanti.

Quanto è importante, secondo te, una buona ambientazione in un romanzo, anche giallo? A una trama ricca di colpi di scena si perdona tutto oppure una cornice accurata è necessaria per trasmettere il giusto messaggio?

Una trama ricca di colpi di scena, come un buon thriller denso d’azione, può forse fare a meno di una convincente ambientazione o di una valida cornice, ma diciamo che non è il mio genere, né come lettore, né come scrittore. Non a caso, penso, sono un appassionato lettore dei romanzi di Simenon, compresi i gialli di Maigret. Li adoro per l’atmosfera sempre diversa in cui l’autore riesce a calarti fin dalla prima pagina, per l’accurata caratterizzazione dei personaggi, da cui sembra scaturire quasi naturalmente la trama, invece che il contrario. E nei quale l’inchiesta, quando c’è, è spesso di routine, è ridotta quasi a un pretesto narrativo.

Parliamo un attimo della tua esperienza editoriale. “Si moriva dal caldo” è edito da Intrecci, una casa editrice giovane e innovativa nata nel 2015. Come ti sei trovato a lavorare con loro?

Molto bene. Sono arrivato a Intrecci tramite un’agenzia letteraria che, con la casa editrice, aveva avuto positive precedenti esperienze. Me ne parlarono bene e i fatti, poi, non hanno smentito. La casa editrice diretta da Lucia Pasquini è piccola, ma molto dinamica e ricca di idee, ed è sempre molto vicina ai suoi autori.

L’esordio, ormai, è cosa fatta. Che progetti hai adesso per il futuro? Possiamo aspettarci qualche altro romanzo da Mirco Giulietti?

Visti i tempi che ci sono nel mondo dell’editoria, a meno di essere un fornitore seriale di bestseller, è fatale che quando arrivi a pubblicare un romanzo ci sia già qualcos’altro di pronto a spiccare il volo. Però, se farsi pubblicare da esordienti è difficile, per esperienza so che non è facile nemmeno per un’opera seconda. Vedremo.

 

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