Intervista alla scrittrice Nadia Busato

"Non sarò mai la brava moglie di nessuno", edito da SEM, parte da una storia per raccontarne molte

Nadia Busato. Foto di Ilaria Vidaletti

Esperta di comunicazione, di cui si occupa da oltre quindici anni, capace di spaziare dalla scrittura per il teatro e il cinema a quella per la radio e i magazine, Nadia Busato ha esordito nel mondo della narrativa nel 2008, con il romanzo “Se non ti piace dillo. L’amore ai tempi dell’happy hour” edito da Mondadori.

Non sarò mai la brava moglie di nessuno, edito da SEM, è tutta un’altra storia. Attraverso una ricostruzione attenta e minuziosa, la Busato ha infatti ripercorso le tracce di Evelyn McHale, una giovane donna che nel maggio 1947 decise di farla finita, buttandosi dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building di New York.

Cosa spinge una persona a morire quando vuole morire? Cosa si nasconde – se qualcosa c’è – dietro un gesto tanto estremo? Ne abbiamo parlato con l’autrice nella nostra intervista.

 

Ciao Nadia, benvenuta su Parole a Colori. Per iniziare, quando hai “scoperto” questa storia, datata 1947? Come ci sei entrata in contatto?

È stato un caso: mi sono imbattuta nella celebre fotografia del cadavere di Evelyn McHale mentre mi aggiornavo per una delle rubriche che tenevo al tempo. Lo ricordo benissimo: era la fine dell’estate 2009 e io, che all’epoca scrivevo per “Grazia” e altre riviste, scorrevo velocemente una serie di Feed RSS, un sistema che usavo per estrapolare notizie da blog e siti di tutto il mondo. Il motivo per cui lo ricordo così bene, però, è un po’ più profondo e intimo. L’ho raccontato nel TEDx che ho tenuto a Novara per le settimane dei diritti delle donne. Avevo avuto da poco la mia prima figlia: un’esperienza che mi ha messo di fronte a questioni che non avevo mai preso sul serio fino ad allora. La responsabilità verso una nuova vita, il destino delle donne nel mondo; e poi, dopo la diagnosi di una malattia genetica rara, l’accettazione del suo corpo non perfetto e di una vita in cui la felicità è davvero una conquista. La maternità è stata un’esperienza rivoluzionaria, che ha cambiato la mia vita. Non solo per la stupefacente crezione della vita in sé (qualcosa che ha del magico, pensando a tutto quello che deve succedere perché si passi dal concepimento a un parto senza complicazioni) ma per il buio, la solitudine, la fatica a cui non ero preparata. In quel momento così complesso, in cui è difficile trovare un ordine e un senso in quello che accade, l’immagine di Evelyn mi ha restituito qualcosa che sentivo appartenermi.

C’è qualcosa in particolare, in quell’immagine, che ti ha colpita fin da subito?

All’epoca la rete amplificava la bellezza del suo ritratto, ma riportava pochissime notizie della sua vita – oggi invece si trovano sempre più tracce di lei. Al di là del magnetismo della fotografia, mi è apparsa da subito una donna nel mezzo di una vita sulla quale non aveva più controllo. Il suo desiderio di essere dimenticata, scritto nel suo biglietto d’addio, era stato completamente infranto, con superficialità: l’arte ha celebrato per decenni solo la bellezza del suo cadavere, trascurando la storia della sua persona. Eppure, le poche righe che ha lasciato ci raccontano molto. Una storia che meritava di essere conosciuta, esattamente come lei era una donna di cui sentivo di voler sapere di più.

E dopo, c’è stato un elemento in particolare, di Evelyn e della sua storia, che ti ha fatto pensare che sarebbe stata perfetta per essere raccontata in un libro?

Per moltissimo tempo (anni, ad essere onesta) ho fatto ricerche solo per me. Mi pareva incredibile che nessuno avesse mai indagato su Evelyn e raccontato la sua storia. Mano a mano che ricostruivo le tappe della sua esistenza, mi appariva un mosaico fatto da una società, da valori, da vicende molto più piccole e spesso in contraddizione con la storia dei libri e delle date memorabili. Più capivo il suo mondo, meno mi appariva rilevante capire se lei fosse in qualche modo depressa o malata, se il suo gesto avesse un legame con la follia o il trauma. Quando ho smesso di chiedermi perché, ho iniziato a capire e stimare tutte le strategie di adattamento che Evelyn ha adottato nelle molte fasi della sua esistenza, il suo carattere così ostinato nel cercare una felicità di cui però aveva solo un’idea confusa.

Possiamo dire, per certi versi, che ti sei rivista in lei, in quella fase particolare della tua vita seguita alla nascita di tua figlia? E che è diventata una sorta di amica?

I suoi conflitti mi parevano così simili ai miei, il suo carattere instabile e irrequieto così familiare, il suo equilibrio di vita sempre precario, i suoi valori così puri da risultrare spesso inconciliabili con quelli degli altri. È diventata una vera amica. Un’amica fantasma, che mi ha permesso di accettare molti aspetti della vita su cui non posso (nessuno di noi può!) avere controllo, che mi ha aiutato a fare pace con il mistero. Dopo molti anni insieme a lei, ho capito che l’unico libro che avrei potuto scrivere era quello in cui ogni lettore potesse fare di lei il fantasma-amico per quella parte buia della propria vita con cui fatica a relazionarsi. Abbiamo tutti un mistero con cui fatichiamo a convivere; e non è semplice accettare che questo mistero dia senso alla nostra esistenza esattamente come gli aspetti che presumiamo di conoscere, su cui sentiamo di avere pieno controllo.

Nadia Busato e Jet Set Roger nello spettacolo dedicato ad Evelyn che unisce musica e letteratura. Foto di MGuerrini

Il tuo romanzo unisce ricostruzione storica, dove possibile, e finzione. Quanto è stato complicato il lavoro di studio e ricerca di informazioni, trattandosi di un evento di cui persino i giornali dell’epoca parlarono poco?

Complicatissimo. Ma è stata una benedizione. Ho scomodato un mondo di persone: psiocologi, psichiatri, medici legali, esperti di morti violente; ma anche professori universitari, filosofi, storici, artisti, galleristi, critici, fotografi. Ho subissato di mail la direzione dell’Empire State Building, il centro storico meteorologico di New York, la direttrice di “Time”, le associazioni dei veterani e persino l’Esercito degli Stati Uniti. Ho rintracciato il fidanzato di Andy Warhol che era con lui quando trovò la foto di Evelyn e iniziò a lavorarla per renderla una serigrafia della serie “Death and Disasters” (il titolo dell’opera è: “Fallen body”). E ho persino intervistato diversi macellai finché non ho trovato quello che sapesse indicarmi esattamente come si macellavano e si commercializzavano le lingue di bovino prima della guerra.

Partendo da una vicenda personale hai finito per ricostruire un mondo intero, usi e costumi del passato, aspetti sociologici e sociali… 

Ogni capitolo è stato il pretesto per approfondire aspetti della storia e della società dell’epoca, sì. Ho studiato manuali sulla storia dell’etica del giornalismo in America, trattati su tecniche autoptiche, diaristica di guerra, cronache del Bronx, manuali sulla propaganda. Anche per questo motivo il libro è costruito con le voci di personaggi di primo, secondo e terzo piano: perché la storia nei libri è fatta di generali e presidenti, ma la storia nella realtà è fatta anche di persone comuni, dalle casalinghe ai burocrati, dai giornalisti ai vigili.

In certi momenti ti sei sentita un po’ una storica, alla ricerca di tracce ed elementi nel passato?

Non volevo fare un romanzo storico. E nemmeno un reportage giornalistico. In più, volevo rispettare il desiderio di Evelyn di non essere osservata morbosamente. Fino all’ultimo ho pensato di non pubblicare nulla, pensa, di tenermi per me quello che avevo scritto. E poi mi pareva folle che qualcuno volesse leggere un romanzo che parla di pre-morienza, che è quel preciso istante, quell’esperienza nella vita di ognuno in cui la consapevolezza della propria mortalità appare chiara, inelidubile. Noi abitiamo il tempo delle risposte: la medicina e la tecnologia ci spiegano tutto. Il nostro cervello e il nostro corpo “funzionano”; ma non è sempre detto che noi, nel frattempo, continuiamo anche a “esistere”. Jhon Berger spiega con parole semplici due potenti verità: in questo esatto momento, i morti sono molti più dei vivi e osservano la vita sapendo che questa non è altro che una parentesi nell’eternità. E ci ricorda anche che, fino a pochi decenni fa, l’esperienza della morte accompagnava la vita in ogni momento: i vivi sapevano di dover morire, i morenti erano nelle case, la morte non era fisiologica o medica, ma era l’esperienza che attende tutti i vivi. Quando abbiamo rotto questo legame con la morte, abbiamo rinunciato a prepararci al confronto con il limite che dà il senso alla nostra esistenza.

La scrittrice Nadia Busato. Foto di Ilaria Vidaletti

“Non sarò mai la brava moglie di nessuno”, come hai accennato, racconta la storia di Evelyn soprattutto attraverso le parole di altre persone, che in un modo o nell’altro sono entrate in contatto con lei, oppure con l’Empire State Building. Perché hai scelto una costruzione di questo tipo? Pensi che il quadro che emerge dal tuo libro, in questo modo, sia più completo di come lo sarebbe stato se Evelyn fosse stata l’unica al centro della narrazione? Oppure è proprio la scarsità di materiale su di lei che ti ha spinta a scegliere questo approccio?

Dalla versione finale del libro sono stati tagliati tre capitoli. E fino all’ultimo ho pensato di non pubblicare il romanzo: avevo ancora così tanto materiale, così tanto da scrivere. Nella mia testa, Evelyn era il centro di una curva dello spazio tempo in cui collassavano la storia del Novecento, le rivendicazioni dell’attivismo politico femminile, l’ascesa di New York, il soft power americano, le avanguardie pop, la società dell’immagine, la medicalizzazione dei corpi e la sterilizzazione delle individualità. Nella fisica quantistica, il tempo e lo spazio dicono agli oggeti come muoversi; ma gli oggetti dicono allo spazio-tempo come curvarsi. Quando immaginiamo la storia come una concatenazione di eventi in serie lungo una linea retta, ci priviamo di molte dimensioni. Ma se guardiamo la storia dal punto di vista di un solo oggetto, ecco che quello può essere il centro di una curva dello spazio tempo dove il concetto di consequenzialità viene stravolto. Un po’ come diceva Warhol della Coca-Cola: tutti la bevono, io, la regina d’Inghilterra, tu, il presidente francese, una classe di studenti in india, una suora in vaticano. Come potrebbe apparirci il mondo in questo esatto istante se immaginassimo di raccontarlo dal punto di vista della Coca-Cola? Il romanzo propone esattamente questo gioco ai lettori: abbandona la storia lineare, rinuncia alla catena delle conseguenze, smetti di chiederti perché e perditi lungo il tempo delle storie che compongono questa storia. Sorprendetemente, questo gioco è accettato da quasi tutti i lettori; per qualcuno rimane faticoso, per tutti diventa liberatorio. È una delle mie più grandi soddisfazioni.

Evelyn era una ragazza apparentemente normale di ventitré anni, che una mattina di maggio ha deciso di finire la sua vita gettandosi da un palazzo, di morire. Della tua introduzione mi ha colpita soprattutto un passaggio, quello in cui ti domandi: “Perché uno muore quando vuole morire?”. A quasi un anno dalla pubblicazione del libro, ti sei data una risposta?

Certamente. La risposta è che non sapremo mai davvero cos’ha pensato prima di lanciarsi. Nemmeno lei lo sa. Il nostro cervello è un organo davvero affascinante, che funziona attraverso l’attività di molte parti, diverse tra loro, che agiscono praticamente insieme. Psichiatri e psicologi mi hanno spiegato che spesso il suicidio non è il risultato di un percorso lineare, ma piuttosto l’irreparabile gesto compiuto in un momento in cui tutto sembra buio. In una delle sue poesie a me più care, “Ricordo bene il suo sguardo”, Pessoa lo descrive molto bene:

Ieri ho passeggiato per le strade
come una qualsiasi persona.
Ho guardato le vetrine spensieratamente
E non ho incontrato amici con i quali parlare.
D’improvviso mi sono sentito triste, mortalmente triste,
così triste che mi è parso di non poter vivere un altro giorno ancora,
e non perché potessi morire o uccidermi,
ma solo perché sarebbe stato impossibile
vivere il giorno dopo.
E questo è tutto.

Pensi che dalla storia di Evelyn, a prescindere dal suo epilogo, si possa trarre un insegnamento? Cosa ti porti dentro tu?

Amiamo la vita per tutto ciò che essa rappresenta: la sfida di sopravvivere, di agire in conflitti che non conoscono mai soluzione ma sempre e solo compromessi ed equilibrio fragili, di meravigliarci di fronte a eventi grandi e piccoli su cui non abbiamo controllo, di sentirci precari di fronte alla natura, di domare gli elementi per poi essere di nuovo soverchiati dal caos. Oggi che siamo pieni di informazioni, di connessioni, di cure, ci viene anche raccontato, ogni giorno, che il mondo sta morendo e che dobbiamo fare qualcosa subito. Sono assolutamente certa che sia necessario abbandonare il terreno della razionalità, di un positivismo folle che pretende di delegare l’esistenza alla tecnologia e alla scienza, che sia nostro preciso compito essere consapevoli dei limiti fisici della vita, riacquistare consapevolezza del corpo e costruire un nuovo rispetto per l’esistenza di tutto ciò che vive. Perché Evelyn si sia suicidata non è così importante; ma ciò che sapremo fare degli interrogativi che una giovane donna che sceglie di togliersi la vita aprono ancora oggi nel nostro mondo di certezze sarà decisivo.

 

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