Intervista ad Alessandro Perissinotto, scrittore e traduttore

“Il silenzio della collina”, uscito a gennaio per Mondadori, racconta una storia intensa e feroce

Alessandro Perissinotto è nato a Torino, dove oggi insegna Teorie e tecniche delle scritture all’Università. Come scrittore ha esordito nel 1997, ed ha all’attivo sedici romanzi – tra cui ricordiamo “Le colpe dei padri“, secondo classificato al premio Strega nel 2013.

Il silenzio della collina” è il suo ultimo lavoro, uscito per Mondadori il 22 gennaio, una storia intensa e feroce ambientate nelle Langhe, che prende le mosse da un fatto di cronaca nera avvenuto nel 1968 e scava dentro un segreto che è rimasto tale per oltre mezzo secolo.

Del libro, della tradizione del romanzo-verità aperta nel 2000 da Emmanuel Carrère ma anche di violenza sulle donne e #metoo abbiamo parlato nella nostra intervista con l’autore, Alessandro Perissinotto.

 

In “Il silenzio della collina” recuperi un fatto di cronaca italiana risalente al 1968, colpevolmente dimenticato, per costruirci sopra un romanzo. Perché hai deciso di raccontare proprio questa storia? C’è un aspetto in particolare che ti ha fatto pensare che fosse “giusta” per dare il là a un’opera di narrativa?

La storia di Maria Teresa Novara mi girava in testa da anni. Cercavo dentro di me il modo per raccontarla, per trovare il giusto equilibro tra il rispetto per chi vuole fare pace con il proprio dolore e la necessità che non si dimentichino le radici dell’odio degli uomini verso le donne affinché quell’odio possa finalmente spegnersi. Alcune vicende personali mi hanno dato adesso la chiave giusta per mettere quella storia in forma di romanzo: ho scelto di narrare quel dolore attraverso un altro dolore, quello di un figlio che vede il padre spegnersi senza essere riuscito a recuperare quel rapporto di affetto che si era interrotto tanti anni prima. Questa è la parte di “fiction” che mi serve per affrontare quella vicenda vecchia di mezzo secolo.

Tra realtà e finzione, come si inserisce il tuo romanzo nella tradizione del romanzo-verità tracciata da Emmanuel Carrère con “L’avversario” (2000)?

Con “L’Avversario”, Carrère crea una tappa fondamentale lungo il cammino iniziato nel 1966 da Truman Capote con “A sangue freddo”. L’idea è quella di non accontentarsi del “verosimile”, ma di introdurre anche il “vero” nella narrazione letteraria. Il vero deve essere presentato senza trasformazioni, ma attorno ad esso può essere costruito un contorno di finzione che serve, per paradossale che questo possa apparire, a dare più nitidezza alla realtà. “Il silenzio della collina” si colloca esattamente su questo cammino: parla di realtà, ma lo fa con gli strumenti e, spero, con la grazia della letteratura. Anche la cronaca parla di realtà, ma la letteratura può concedersi spazi più ampi e può permettersi di non essere schiacciata sul presente, può permettersi di trasformare la cronaca in memoria.

Quello che colpisce del tuo libro è anche l’ambientazione. Da torinese, perché hai scelto le Langhe come sfondo per la tua storia e per i tuoi personaggi? Cosa rappresentano per te, e cosa per il protagonista Domenico, che da anni si è trasferito a Roma dove ha ottenuto il successo come attore, e per il padre, che invece non se n’è mai andato?

La scelta di narrare la vicenda di Maria Teresa Novara mi ha condotto necessariamente ad ambientare la storia in terra di Langa. Assunto questo punto di partenza, il paesaggio, come sempre nei miei romanzi, è diventato personaggio più che semplice sfondo. Domenico, che ha abbandonato le Langhe da bambino e ha seguito a Roma una fortunata carriera di attore televisivo, ritorna nella sua terra per scoprirne le ferite profonde, ma anche le bellezze e i cambiamenti. La letteratura di Langa, da Pavese, a Fenoglio ad Arpino, è sempre una letteratura “di ritorni”, di personaggi che iniziano a parlare del proprio paese solo dopo averlo abbandonato e riconquistato in una dimensione nuova. E in questa riconquista, per Domenico Boschis, il protagonista, c’è anche la rilettura di Fenoglio e la scoperta che già nella Malora erano contenuti i tratti fondamentali di una cultura di “uomini che odiano le donne”.

Negli anni del #MeToo e della ripresa dei movimenti femministi, “Il silenzio della collina” sembra voler far riflettere sul fatto che la violenza sulle donne ha radici profonde e viene da lontano. Era questo il messaggio di fondo che volevi trasmettere? E cosa pensi si possa fare, in concreto, per arginare il fenomeno?

Come dicevo, il viaggio a ritroso nella violenza contro le donne è molto lungo. In effetti, con questo romanzo, volevo ribadire che concentrarsi sull’oggi, magari dando a colpa a Internet o ad altri elementi della contemporaneità è fuorviante: il problema della violenza e del femminicidio affonda le sue radici in una plurimillenaria idea di supremazia dell’uomo sulla donna. Se non estirpiamo le radici, la pianta dell’odio di genere rinascerà sempre. Estirpare queste radici significa, ad esempio, cancellare l’idea che amore e possesso possano coincidere.

 

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