Il BFI London Film Festival è ormai giunto alle battute finali, ma è adesso che le interviste di Parole a Colori entrano nel vivo. Arriva in questo momento, ad esempio, uno degli incontri che ho atteso con più trepidazione, quello con Pietro Marcello, l’artista dietro il riuscitissimo “Martin Eden”.
Molti conosco Marcello nelle sue vesti di documentarista, vincitore, tra le altre cose, del Nastro d’Argento e del David di Donatello nel 2009 per “La bocca del lupo”. Però, negli ultimi anni, per la precisione quattro, sembra aver intrapreso la strada del lungometraggio, presentando prima “Bella e perduta” a Locarno e, proprio quest’anno, “Martin Eden”.
Si tratta di “un film con un’anima”, per citare lo stesso regista, che può presentare imperfezioni ma che sicuramente ha una storia profonda e importante da raccontare. Una storia che non lascia indifferenti, anche grazie a un’interpretazione magnetica di Luca Marinelli.
Una storia che io cerco di approfondire a tu per tu con Pietro Marcello, nei soliti quindici minuti di domande che gli Afternoon teas mi concedono.
Innanzitutto, devo farti i miei complimenti per il film e per la scelta di Luca Marinelli, perché è straordinario come riesce a tenere la scena, che alla fine è tutta incentrata su Martin Eden…
Quindi la regia non ti è piaciuta? [Ride]
No, figurati, però il ruolo del protagonista sembra proprio cucito addosso a Marinelli…
Ma lui è un attore straordinario, che ho scelto innanzitutto perché avevo bisogno di un professionista abile e capace di attraversare il personaggio, cogliendo appieno la sua trasformazione da sottoproletario a scrittore intellettuale.
E qual è stato il percorso che avete fatto per costruire un personaggio così difficile, dal punto di vista propriamente introspettivo?
Innanzitutto, siamo diventati buoni amici. Lui è entrato nel personaggio attraverso tanto studio, ha fatto anche un grande lavoro sulla lingua sia insieme al coach che insieme a me. Poi abbiamo parlato e ci siamo confrontati, abbiamo passato molto tempo insieme e spesso abbiamo lavorato insieme per la realizzazione delle scene del film. Abbiamo lavorato davvero in stato di grazia, perché alla fine abbiamo lavorato a questo film in modo poco industriale, eravamo più una grande famiglia. Ci credevamo tutti, eravamo tutti dentro al film.
Infatti, questa familiarità l’hai poi anche ricercata nella scelta di Napoli come setting della storia…
Ho scelto Napoli soprattutto perché è una città tollerante, che ha accolto bene me e il mio team di avventurosi. Da un punto di vista produttivo, Napoli mi ha dato veramente il benvenuto, solo a Napoli si poteva fare questo film. A Genova sarebbe stato troppo faticoso, a Roma forse anche, essendo la capitale del cinema, per cui, viva Napoli!
Parlando del tuo stile di regia, ho trovato delle scene molto documentaristiche. In che modo il tuo lavoro da documentarista di ha aiutato nella realizzazione di “Martin Eden”?
Il documentario è uno strumento molto importante per fare cinema, ma dipende molto dall’uso che ne fai. Nel caso di “Martin Eden”, mi ha aiutato innanzitutto per affrontare gli imprevisti del film, visto che credo che la scrittura nel cinema sia un’opera incompleta, perché c’è una grande differenza tra quello che immagini e quello che fai. Il mio lavoro sui documentari mi ha aiutato a tenere il film insieme, a trovare soluzioni durante la lavorazione, nel passaggio da scrittura a realizzazione del film.
Anche il tuo modo di documentare i pensieri profondi di Martin Eden, attraverso queste piccole clip, è molto particolare. Come le hai scelte?
Alcune delle immagini sono d’archivio, altre le ho girate io. Il punto era attraversare in modo efficace il Novecento e, quando mi sono chiesto come fare, ho scelto di farlo attraverso la grande storia, che è narrata negli archivi, un materiale che mi è molto familiare, con cui lavoro da sempre, e che considero solamente una riproduzione del mio cinema.
Cambiando discorso, la tua è una libera trasposizione dell’opera omonima di Jack London. Come hai gestito il processo di adattamento? E come hai scelto quali elementi tenere e quali escludere o cambiare?
Per l’adattamento del romanzo è stato fatto un grande lavoro da Braucci, con cui ho collaborato nella stesura della sceneggiatura. Mi sono affidato molto a lui, che è un bravissimo scrittore prestato al cinema, poi me la sono dovuta vedere da solo girando. Dal mio punto di vista, Braucci ha fatto un ottimo lavoro, trattenendo e mettendo insieme i punti salienti del romanzo.
In particolare, quali difficoltà hai dovuto fronteggiare? Quali aspetti sono stati più difficili da gestire?
È stato difficile essere al contempo sia il regista che il produttore del film. Dovevo pensare allo stesso tempo ai problemi tecnici e anche a quelli legati alla produzione. E allora sono andato un po’ a marcia ridotta.
Negli ultimi anni ho avuto modo di incontrare qui a Londra molti registi napoletani, e con loro ho potuto parlare della rinascita del cinema e dell’animazione partenopea. Tu che ne pensi?
Napoli è una città tenace, non è mediana. È chiaro che si potrebbe creare un polo per il cinema anche se io non faccio cinema d’intrattenimento. Il cinema ha le sue necessità, ma a Napoli ce ne sono altre più importanti. Napoli ha bisogno di scuole, di educazione, di pedagogia, e se questo può avvenire attraverso il cinema, se il cinema può diventare uno strumento di emancipazione e di evoluzione, ben venga.
È questa l’attualità che tu hai visto nella storia di Martin Eden?
“Martin Eden”, in fin dei conti, è un romanzo di educazione sentimentale. Il mio obbiettivo è quello di portare il film tra i giovani, magari nelle scuole, perché si sente solo parlare dei “vecchi” senza chiedere mai ai giovani quali siano i loro sentimenti e che cosa vogliano dalla vita. Anche la mia generazione è una generazione che è cresciuta dentro a un ventennio berlusconiano che non ha lasciato niente, siamo all’ombra, con tanti italiani emigrati all’estero, come si vede bene qui a Londra.
Grazie mille per il tuo tempo.
Grazie a te!