Un film di Chang-Yong Moon, Jin Jeon. Con Padma Angdu, Urgain Rigzin. Documentario, 95’. Corea del Sud, 2016
Un ragazzo apparentemente comune scopre di essere il più alto in grado tra i monaci tibetani, reincarnato da un passato, con il titolo nobiliare di Rinpoche. Però, il giovane Padma Angdu si è reincarnato lontano dal suo monastero e dai suoi discepoli. In contrasto con la vita privilegiata che il ragazzo avrebbe potuto avere, circondato da assistenti all’interno di un bel Monastero, Padma Angdu nella sua seconda vita dovrà affrontar eun evento inaspettato.
Vincitore della sezione novità del Festival del cinema di Berlino e del premio del pubblico del festival di Trento, “Becoming who I was” di Chang-Yong Moon e Jin Jeon arriva a Londra accompagnato da grandi aspettative. E non delude le attese.
Qualcuno, al sentire/leggere le parole “documentario” e “storia buddista”, avrà l’istinto di scappare, ma vi invitiamo a non farlo. Il docufilm, infatti, merita qualcosa di più di un giudizio superficiale.
Realizzato in otto anni, racconta, con grande delicatezza e rispetto per le persone coinvolte, la storia personale e autentica del giovane Padma Angdu e del suo maestro/protettore, Urgain Rigzin, un noto guaritore e monaco buddista a Ladakh, nel Nord dell’India.
In particolare il documentario, che nasce dalla curiosità dei registi verso il rapporto e l’amore fra l’allievo e il maestro, ritrae Padma Angdu dal momento in cui viene riconosciuto come Rinpoche, o reincarnazione, di un Lama tibetano. Il destino lo porterà ad essere prima scacciato dal monastero e in seguito a viaggiare fino in Tibet, alla ricerca di qualcosa che tutti desiderano trovare: il proprio posto nel mondo.
Grazie alla genuinità del soggetto e all’unicità del rapporto ritratto nel documentario, “Becoming who I was”, che potrebbe risolversi in un’enciclica sul buddismo e le sue tradizioni, diventa in realtà una storia profonda e piacevole che coinvolgere il pubblico.
Non solo il rapporto padre-figlio tra Padma Angdu e il suo maestro è qualcosa in cui tutti possiamo rivederci, ma il docufilm riflette l’amore, la tenacia e la cura di chi lo ha voluto e realizzato: Jin Jeon e Chang-young Moon.
I due documentaristi, immergendosi nell’ambiente che descrivono con le loro telecamere, creano una narrazione piena di rispetto e amore. Con grande maestria catturano quei momenti e quei dettagli fondamentali per cogliere fino in fondo la straordinarietà della storia che raccontano.
Nell’ora e mezza di documentario che Jin e Chang-Yong regalano al pubblico, si respira fiducia, tenerezza, commozione e anche meraviglia per l’impresa che Padma, il maestro e i due documentaristi affrontano per accompagnare il giovane Rinpoche al “suo posto”, ovvero, il Tibet. Un’atmosfera che fa bene al cuore e lo scalda.