Un film di Hlynur Pàlmason. Con Ingvar Eggert Sigurðsson, Ída Mekkín Hlynsdóttir, Hilmir Snær Guðnason, Björn Ingi Hilmarsson, Elma Stefania Agustsdottir. Drammatico, 109′. Islanda, Danimarca 2019
Ingimundur è un poliziotto di mezza età che vive in un paesino islandese. La morte della moglie in un incidente lo destabilizza, lasciandolo a elaborare il lutto come meglio può: concentrandosi sulla costruzione di una casa e soprattutto sulla cura della nipotina di otto anni, Salka. Sotto la superficie, però, ribolle un istinto che nessuna forma di terapia può tenere a bada. “Investigando” il passato della moglie, Ingimundur scopre tracce di infedeltà e risale all’identità dell’amante. L’ossessione diventa una nebbia fitta in cui è impossibile orientarsi.
È in programmazione da giovedì nelle nostre sale il film islandese “A White, White Day – Segreti nella nebbia”, che nel 2019 ha ben impressionato alla Semaine de la critique di Cannes e al Torino Fil Festival, dove è stato incoronato vincitore del concorso principale.
Indubbiamente la cinematografia nordica, negli ultimi anni, ha compiuto un considerevole salto di qualità, meritandosi l’attenzione della critica e il consenso del pubblico con thriller e noir eleganti e sofisticati.
L’asticella nei confronti di questi cineasti si è giocoforza alzata. Quindi, almeno per ciò che mi riguarda, è grande – e inaspettata – la delusione davanti a un film come quello di Hlynur Pàlmason.
“A white, white day – Segreti nella nebbia” sembra un mix forzato e pasticciato tra noir e thriller psicologico, con gli elementi che non si armonizzano tra loro. La sceneggiatura è confusa, dilatata oltremodo nel tempo e nello spazio, dà la sensazione di una storia appena abbozzata e superficiale nei contenuti.
L’elaborazione del lutto e il dramma della gelosia, come questa possa sconvolgere un uomo e spingerlo a compiere le azioni più estreme, sono le due tematiche cardine su cui si basa l’intreccio.
Ingimundur (Sigurðsson), nelle azioni e nell’evoluzione emotiva, fa pensare da un lato all’Otello shakespeariano, dall’altro allo William Foster di “Un giorno di ordinaria follia”. Dopo la tragica morte della moglie, la vita di questo poliziotto di mezza età è andata in pezzi. Dopo aver lasciato il lavoro è caduto in una spirale di depressione, tanto da aver bisogno del sostegno di un terapista.
L’unico raggio di luce in un mondo di buio è rappresentato dalla nipotina di otto anni, Salka. Ma nemmeno la presenza della piccola può fermare la spirale autodistruttiva/vendicativa di Ingimundur, una volta scoperto causalmente il tradimento della moglie.
Nella prima parte “A white, white day – Segreti nella nebbia” vive di suggestioni, attese e silenzi, amplificati dalla cornice ambientale e naturale che diventa la coprotagonista del film, assumendo un valore simbolico. La follia lucida di Ingimundur muta come il clima intorno a lui. È una forza invisibile quanto potente che turberà la quiete di questa piccola comunità.
La seconda parte sulla carta è più movimentata, thriller, anche violenta se vogliamo, ma ciò nonostante la visione rimane faticosa quanto impegnativa.
Nonostante affronti tematiche dolorose e complesse, e metta in scena il travaglio interiore di un uomo tradito, il film si rivela davvero troppo celebrale e autoriale, impedendo la connessione tra spettatore e protagonista e un reale coinvolgimento nella storia. Sarà bello sul piano visivo e originale su quello stilistico, ma personalmente ne avrei fatto volentieri a meno. Altro che capolavoro.