Parlare di un libro come questo non è semplice, quindi inizierò con qualche notazione sull’autore e sulla storia del romanzo. «Nel 1975 lo scrittore americano Walker Percy, cedendo alle insistenze di un’energica e imperiosa 70enne, affrontò un dattiloscritto macchiato di unto e caffè. Il dattiloscritto si intitolava Una banda di idioti e la signora era la madre di John Kennedy Toole, morto suicida a 32 anni. Percy trovò il romanzo geniale, eccentrico, esilarante e contribuì in modo decisivo alla sua pubblicazione, avvenuta nel 1980. Al di là delle migliori aspettative, il libro riscosse un successo clamoroso, arrivando a vendere quasi due milioni di copie in tutto il mondo, e fruttando al sua autore un premio Pulitzer postumo.»
«”Ken” Toole era nato nel 1937 a New Orleans. Temperamento istrionico e solitario, amò una sola donna, perdutamente: Marilyn Monroe. Il suo primo romanzo, La Bibbia al neon, era rimasto nel cassetto. Un incarico di tutto riposo presso una base militare gli consentì di scrivere Una banda di idioti. Tornato a New Orleans, dalla madre, conquistò platee di studenti con spettacolari lezioni di letteratura e tentò senza successo di trovare un editore per il suo secondo libro, a cui sentiva di aver consegnato una parte fondamentale di sé. Fino al tragico epilogo, una mattina di primavera del 1969, in riva al Mississippi.»
Il lettore che come me, in partenza, sa queste cose si trova a chiedersi quanto, il personaggio di Ignatius, abbia in comune con lo scrittore che gli ha dato vita. Chiamatemi sentimentale, ma mentre leggevo delle avventure e disavventure di questo incompreso, di questo idealista che ce l’ha con il mondo e dal mondo non viene capito, pensavo spesso che un destino simile doveva essere toccato in sorte anche a Toole… Parallelismi solo nella mia mente? Non arrivo a ipotizzare che lo scrittore abbia vissuto situazioni tragicomiche e grottesche come il nostro mastodontico protagonista, ma il senso di incomprensione, il sentirsi diverso e fuori dal mondo… forse questi potrebbero essere visti come elementi autobiografici.
Dopo questo inizio sui generis, passiamo a parlare del libro vero e proprio. Ignatius J. Reilly è davvero un personaggio diverso da qualsiasi altro avete mai incontrato prima tra le pagine di un libro. Come si può descrivere, a chi non ne ha letto le imprese, il suo aspetto sgraziato da pachiderma, la sua valvola immaginaria che si apre e si chiude a seconda dell’umore e lo rende incapace di sforzi e attività fisica (almeno secondo lui), il suo atteggiamento sospeso tra l’indolenza totale e il desiderio di cambiare il mondo (o quanto meno impressionare «quella sgualdrina impenitente di Myrna Minkoff»)?
Il “giovane idealista” (per prendere in prestito una felice definizione – felice nella sua ironia e nella sua paradossalità – della signora Levy) vive ancora con la madre, a oltre 30 anni suonati. Nonostante una laurea in filosofia non ha mai pensato di cercarsi un lavoro, ma si tiene occupato scrivendo appunti e idee bislacche chiuso nella sua stanza. La necessità di risarcire i danni di un incidente d’auto e la presa di posizione della madre, che inizia piano piano ad aprire gli occhi sul suo conto, lo costringeranno a mettersi alla ricerca di un lavoro… con esiti prevedibilmente tragicomici.
La madre Irene merita un capitolo a sé. I difetti e i fallimenti dei figli non devono essere fatti risalire all’operato dei genitori, ma mano mano che si viene a sapere la storia di Ignatius e lo si vede all’opera nella vita di tutti i giorni, qualche dubbio che questa mamma premurosa, affezionata al figlio tanto da perdonargli stranezze e nullafacenza, abbia la sua dose di colpe al lettore viene… Irene ha amato il figlio in modo incondizionato, probabilmente, e non è mai stata un genitore di polso. La morte del marito non ha fatto che aggravare la mancanza di autorità in casa. E così il giovane Ignatius ha potuto sviluppare indisturbato il suo carattere e la sua mentalità.
Nel corso del libro assistiamo però al risveglio di questa donna, che immaginiamo over-60 ma non troppo, trascurata, dedita in tutto e per tutto alla cura del “pargolo”. L’incontro con l’agente Mancuso e con la vitale zia di lui, Santa Battaglia, aprirà come si sul dire un mondo alla signora Reilly. Che troverà la forza di ribellarsi al figlio-desposta e riprendersi, in un certo senso, la sua vita. Sui risultati di questa presa di coscienza non ci pronunciamo.
E cosa dire di tutti gli altri personaggi, che in un modo o nell’altro incrociano la strada del nostro protagonista? Jones, negro in semi-schiavitù, costretto a trovarsi un lavoro per non finire in prigione e assunto con una paga inferiore a qualsiasi minimo sindacale dalla padrona del Notti di Follia, un locale equivoco dove vengono portati avanti affari poco chiari. La signorina Trixie, ottuagenaria sempre a caccia di prosciutti pasquali e, suo malgrado, dell’eterna giovinezza. Myrna Minkoff, anarco-femminista di New York, che sfida con un serrato carteggio anima e sesso di Ignatius e alla fine, sembra, arriva per salvarlo.
E ancora Santa Battaglia e l’agente Mancuso, pronti a consolarsi dei rispettivi guai con partite di bowling. E poi, Yoghi, Rosvita e Batman, le Manifatture Levy, Gus Levy, signora e viziatissime figlie. Non si può negare che il protagonista si stagli imponente in tutte le pagine di questa storia, ma questo coro di buffe e paradossali figure, ciascuna con i suoi problemi, le sue nevrosi, le sue fissazioni, rappresentano il controcanto perfetto alla parabola altalenante del nostro Ignatius. Insieme, lui e loro, disegnano un quadro grottesco, ironico e certamente dissacrante della società americana ma anche della vita familiare e dei rapporti sul lavoro.
Un libro particolare, scritto in modo impeccabile. Una storia che coinvolge il lettore, che fa sgranare gli occhi, a tratti disgusta, a tratti fa riflettere. Una vita che non è esemplare, che non è perfetta, ma merita di essere letta, fosse solo per ridere dei nostri difetti di uomini e donne contemporanei e dei mali della nostra società.