Se dovessi scegliere una sola cosa da dire sui romanzi di Hilary Mantel sarebbe la seguente: sono scritti bene. Indipendentemente dal periodo storico in cui sono ambientati, dalla storia che raccontano e dai personaggi, leggerli è, dal punto di vista tecnico, un vero piacere (onore al merito anche a Giuseppina Oneto, che in questo caso si è occupata della traduzione dalla lingua inglese).
Non fa eccezione “Un esperimento d’amore“, uscito il 6 maggio per Fazi editore. Un romanzo “contemporaneo”, rispetto almeno alla monumentale trilogia sui Tudor che ha consacrato l’autrice inglese nel firmamento delle grandi voci della narrativa contemporanea.
Carmel McBain è figlia unica di genitori cattolici irlandesi della classe operaia. Sua madre aspira a qualcosa di più per lei rispetto a ciò che la vita, nella loro desolata cittadina, ha da offrire, nutre grandi ambizioni per la figlia ed è determinata a superare le rigide barriere sociali dell’Inghilterra. Così spinge Carmel a ottenere una borsa di studio per la scuola del convento locale, e poi a sostenere gli esami per un posto alla London University. E Carmel non la delude.
Ma il successo porta con sé un prezzo spaventoso. Carmel comincia un viaggio solitario che la porterà il più lontano possibile da dove è partita, sradicandola dai legami di classe e luogo, di famiglia e di fede. In fondo, sradicandola da se stessa. Alla fine degli anni Sessanta, a Londra, si troverà di fronte a nuove preoccupazioni – sesso, politica, cibo e contraccezione – e dovrà affrontare una grottesca tragedia.
Come ho scritto in apertura, “Un esperimento d’amore” è un romanzo scritto in modo magistrale, che porta avanti la sua narrazione senza perdere un colpo e fa letteralmente immergere nella vita – presente e passata – della sua protagonista Carmel.
Quello che mi ha colpita di più, al di là di tutto, è stato il finale. Perché la Mantel dimostra come poche pagine, se di forte impatto, possono cambiare completamente la luce sotto cui si guarda una storia.
Al di là della maestria tecnica della sua autrice, fino al finale “Un esperimento d’amore” è soprattutto un romanzo illuminante sulla condizione della donna sul finire degli anni ’60 ma più in generale sulla giovinezza. Alcuni passaggi della storia sono profetici, valgono per i giovani di quel periodo ma anche per qualsiasi giovane di qualsiasi epoca – ed è quasi buffo, veder messe in bocca a un altro frasi che si applicano così bene alla nostra vita.
Solo qualche esempio:
Se sapessimo a vent’anni quello che sappiamo a trentacinque potremmo vivere una vita meravigliosa; d’altro canto potremmo scoprire che non abbiamo alcuna intenzione di costruircene una.
Dicono che si è giovani una volta sola, ma non lo siamo a lungo? Più a lungo di quanto si riesca a sopportare.
Adesso penso che la separazione netta tra le persone sia questa: c’è chi considera la vita difficile e chi la considera facile. C’è chi ha connaturata la speranza di trovare la felicità e chi pensa di non doversela aspettare: che non sia in realtà un diritto dell’uomo. Né, Dio ce ne scampi, un diritto della donna.
E poi, quelle poche pagine. Quell’evento che cambia il senso della storia, che stravolge la vita dei personaggi e, a ben guardare, anche noi. Un evento che fa precipitare le cose e imprime alla narrazione un’improvvisa spinta in avanti – verso il futuro, la maturità, anni “dopo” quando i fatti di Londra sono un ricordo fumoso ma mai dimenticato.
“Un esperimento d’amore” è un romanzo che parla di fasi della vita, delle difficoltà di affrancarsi dal passato e dalle origini ma anche di quelle, non necessariamente meno grandi, di imporsi in una nuova dimensione e in un nuovo mondo. Un romanzo che è un viaggio alla (ri)scoperta di se stessi, e che mentre lo leggi ti cambia nel profondo.