“Trust”: recensione del romanzo di Hernan Diaz edito da Feltrinelli

Un buon esempio di metaletteratura che però resta sempre freddo, distante e costruito

In questo inizio d’estate mi sono ritrovata a leggere diversi romanzi molto discussi e chiacchierati, andando anche un po’ contro il mio consueto modus operandi di lettrice onnivora ma disordinata, che difficilmente legge il “libro del momento” e preferisce invece farsi sempre guidare soltanto dal proprio istinto.

Ma nel caso di Trust” di Hernan Diaz, edito da Feltrinelli, così come qualche settimana fa in quello di “I miei giorni alla libreria Morisaki” di Satoshi Yagisawa (qui la mia recensione) a spingermi alla lettura è stata più la mera curiosità che il chiacchiericcio e la fama del romanzo. Capolavoro o titolo pompato ad arte? Anche in questo caso mi sono fatta un’idea abbastanza precisa…

New York, anni cinquanta. Dopo la pubblicazione di un romanzo mendace e offensivo sulla sua vita, il ricchissimo finanziere Andrew Bevel, diventato milionario grazie alle speculazioni in Borsa negli anni ’20, assume la giovane Ida Partenza, figlia di un anarchico italiano, perché lo aiuti a scrivere un’autobiografia in grado di raccontare finalmente la verità sui suoi successi e sulla sua defunta moglie, Mildred.

Ida intuisce presto che nemmeno dalla sua penna, strettamente controllata dal committente, uscirà il ritratto fedele di una donna complessa la cui reale personalità continua a sfuggirle, e la morte improvvisa di Bevel la costringe infine a lasciare incompleto il lavoro. Soltanto trent’anni dopo ha la possibilità di accedere agli archivi della Fondazione Bevel, dove trova finalmente il diario di Mildred, prezioso tassello mancante all’enigma che ha lasciato nella sua vita un’impronta indelebile.

Quattro testi, quattro generi letterari, quattro voci, quattro punti di vista compongono un raffinato gioco di specchi in cui dietro le scelte di un leggendario uomo d’affari americano si intravede la figura polimorfa e affascinante di una moglie, artefice misconosciuta della sua fortuna. 

Trust” è un romanzo con il suo perché, che trasmette però una sensazione troppo smaccata di costruito. È questo il suo principale limite, per come la vedo io – e ho ritrovato anche in altre recensioni online questo pensiero: leggendo è impossibile scacciare la sensazione che Hernan Diaz abbia voluto tentare un esperimento di metaletteratura al tavolino, e che alla fine il libro sia tutto qui, un prodotto costruito con alle spalle zero spontaneità o voglia di raccontare qualcosa.

Delle quattro parti ho apprezzato soprattutto la terza, quella dove Ida Partenza racconta la sua esperienza di biografa di Bevel negli anni ’50 e poi le successive ricerche su di lui e sulla moglie negli anni ’80 – anche se le digressioni sul movimento anarchico e sul rapporto di Ida col padre sono troppo lunghe, pesanti e a tratti ridondanti. Le altre tre parti sono affascinanti ma hanno anche una pesantezza di fondo che non permette di apprezzarle a dovere. 

Alla fine si ha un’idea più precisa di quello che “Trust” è e del perché abbiamo letto questi quattro scritti tanto diversi eppure anche con punti in comune. I dubbi, comunque, restano, non tutte le domande trovano una risposta. E la sensazione dominante, almeno per me, è quella di aver avuto tra le mani un libro costruito dalla prima all’ultima riga, che al di là di tutto di spontaneo non ha un bel niente. 

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