Solo il tempo di morire, Paolo Roversi

Solo il tempo di morirePrima che Milano diventi la città da bere qualcuno deve conquistarsi il proprio posto al sole sotto la Madonnina. In lizza ci sono tre banditi con le rispettive batterie, e uno sbirro cocciuto e implacabile pronto a contrastarli. Sullo sfondo, la Milano degli anni Settanta e Ottanta, la città rossa, teatro di una lotta senza quartiere per la supremazia fra grandi organizzazioni criminali e nascenti bande spietate. Ognuna col proprio sogno terribile e ambizioso: Faccia D’Angelo, il Catanese e il bandito dagli occhi di ghiaccio, tre uomini molto diversi che si contendono la supremazia su una metropoli fatta di rapine e gioco d’azzardo, di bische e rapimenti, di bordelli di lusso e di ruffiani, di bombe e morti ammazzati, di camorristi e mafiosi, di donne bellissime e pericolose, di auto potenti e abiti sartoriali ma, soprattutto, di fiumi di cocaina e denaro. Un romanzo che è una corsa a perdifiato dal 1972 al 1984, dodici anni di storia criminale che hanno cambiato faccia alla città e all’Italia. La sanguinosa epopea della mala milanese nel “romanzo criminale” della metropoli lombarda.

 

Che dire, ho deciso di leggere questo libro spinta dalle evidenti analogie – create in primis dall’immagine di copertina e dalla sinossi – tra questa storia e quella raccontata in “Romanzo criminale” di Giancarlo De Cataldo. Il che, a pensarci adesso a mente fredda, è strano perché nonostante io abbia amato alla follia il film e la serie nati in un secondo momenti, il libro in questione non mi aveva fatto chissà quale impressione a suo tempo. Perché era molto freddo, molto pulp ma poco emotivamente coinvolgente.

Solo il tempo di morire” è un pochino meglio, almeno da questo punto di vista. È comunque la cronaca dettagliate e attenta di dodici anni di storia della malavita milanese, dal 1972 al 1984, però il lato umano dei personaggi si percepisce almeno un pochino. Certo di qui a dire che la lettura sia entusiasmante… È illuminante, questo sì, porta il lettore all’interno delle organizzazioni criminali meneghine, tra bische, alleanze e nemici giurati, possiamo dire che spalanca un mondo. Però è complicato parteggiare per questo o per quello, perché i personaggi – come quelli di “Romanzo criminale” – d’altronde restano sempre un po’ distanti, estranei per molti versi.

Se vi aspettate un romanzo classico resterete delusi. Ma questo non significa che “Solo il tempo di morire” sia una brutta lettura. L’atmosfera che si respirava in quegli anni sotto la Madonnina viene ricreata alla perfezione, attraverso canzoni, abiti, dettagli chi legge viene riportato indietro nel tempo.

Devo ringraziare l’esame di stato da giornalista che ho sostenuto di recente per essere riuscita a ricollegare i nomi fittizi dati ad alcuni personaggi con le vicende realmente accadute che sono descritte. A dire il vero non ho capito fino a fondo questa decisione dell’autore. Perché alcuni personaggi realmente esistiti conservano nome e cognome, oltre alle imprese più o meno nobili che hanno compiuto, e altri no. Magari non si tratta neppure di una decisione di Roversi, ma di una sorta di imposizione – a dire il vero non so bene come funzioni, con la citazione di persone realmente esistite nei libri. Magari gli eredi/familiari devono dare il consenso e se non lo fanno… il nome non può comparire. Comunque sia mi è sembrato strano che alcuni personaggi fossero identificati e altri no. A questo punto non sarebbe stato meglio nascondere tutti dietro false identità?

Altro punto oscuro è il riferimento che nella trama viene fatto a “donne bellissime e pericolose”. Se di questo libro si può dire una cosa senza timore di essere smentiti è che un romanzo tremendamente al maschile. I protagonisti sono uomini – tre criminali, un poliziotto -, i co-protagonisti pure. Di figure femminili ne incontriamo sì alcune, ma quante di queste ci restano impresse per qualche dettaglio? Personalmente, a me soltanto Carla, la moglie di Antonio Santi, perché quanto meno ha una sua personalità, delle convinzioni. Tutte le altre non sono che figure di contorno. Se mancassero si avvertirebbe a malapena la differenza.

A Paolo Roversi va riconosciuto il merito di aver raccontato una storia consistente quanto ad anni coperti e a vicende accadute senza scadere nella mera cronaca. C’è un certo ritmo, in questo libro, un certo non so che che aiuta il lettore ad arrivare fino alla fine senza annoiarsi. In questo senso, la scelta di alternare punti di vista e situazioni gioca un ruolo rilevante. La storia è mossa, cronologicamente e non solo, le voci si distinguono bene, gli anni passano.

Alla fine è Roberto Vanzelli (Renato Vallanzasca, ndr) a tirare le fila di questa storia criminale e mettere la parola fine. E nonostante i tre criminali di cui si sono lette le gesta ne abbiano combinate di cotte e di crude, lasciandosi alle spalle, tra gli altri, una scia di cadaveri, quello che si prova arrivando all’ultima riga è un forte senso di tristezza. A cosa è servito lottare, brigare, macchinare nell’ombra? Un Re di Milano è stato ucciso in carcere, uno ha cantato e adesso è chissà dove, sotto protezione. Il bandito dagli occhi di ghiaccio marcirà in galera. Dopo aver vissuto sì e no duecento giorni da leone. Duecento giorni che non bastano a sopportare una vita intera dietro le sbarre. Quando tutto quello ti aspetti dal futuro è il vuoto, si capisce perché ti basta solo il tempo di morire.

Cala il sipario.


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