di Maria Cristina Ruggieri
In libreria, nella scaffalatura saggistica, è facile trovare fuori posto o manomesso “L’epoca delle passioni tristi” di Miguel Benasayag e Ghérard Schmit. Dacché mi è venuta spontanea, visto l’interesse, una riflessione letteraria circa la tristezza. I due autori ci presentano il male della nostra società come un’angoscia esistenziale soffusa e senza contenuti, una tristezza nevrotica e superficiale atta solo all’abbandono di intenti e non alla crescita spirituale.
Infiniti autori pre-Dio è morto, però, ci hanno presentato immagini completamente diverse della loro tristezza. Io ve ne propongo due diametralmente opposte: la melanconia, o bile nera, di matrice classica e filosofica, e la depressione, concetto moderno e più scientista. Per farlo mi servo di due modelli letterari: Aiace, eroe greco, e Oblomov, personaggio nato nella mente di uno scrittore russo dell’800.
Aiace Telamonio, classe 445 aC, è il più eroe tra gli eroi greci, portavoce di un ethos (o morale) ormai superato. La sua fine è proverbiale “o gloriosamente vivere o gloriosamente morire” e per il suo atteggiamento nei confronti delle situazioni oggi lo definiremmo, più che coerente, dai tratti psicopatologicamente rigidi. Aiace è un eroe così emotivamente compiuto che nel suo personale esperimento di vita non trova spazio per includere gli ingranaggi della società. Aiace non può sopperire alle incombenze quotidiane, se non con la sua istintiva pienezza; è per questo che gli fa scacco un “arrivistico” e malleabilmente furbo Ulisse, dalle sfaccettature infinite quanto quelle della vita.
Entra in rotta con Ulisse per contendersi la spada del Pelide Achille (immaginate la pubblicazione del vostro romanzo come premio di un concorso) ed è disposto a farsi abbandonare da tutti pur di portare avanti i suoi ideali. Chi non crede in lui è un traditore. I suoi compagni marinai chiedono alla sua dolce compagna: “Com’è che, placato, non si sente sereno più che sotto la crisi?” Perché il suo tormento è interiore. “E la nostra ragione, può ignorare la norma?” si chiede Aiace, che agli altri pare rinsavito, mentre sta per portare avanti la più atroce violazione del codice eroico: rinunciare al suicidio, alla sua integrità morale e darla vinta ai capricci degli Ateniesi che, per semplice simpatia, preferiscono consegnare la spada a Ulisse.
E invece Oblomov? Chi è, per cosa si tormenta? Oblomov, creato da Goncarov nel 1859, fa anche lui una mala fine.
– Non era più sciocco di altri: un’anima pura e limpida come acqua; era nobile, tenero e si è rovinato!
– Perché mai? Quale sarebbe la causa?
– La causa… quale causa? Oblomovismo! – disse Stolz.
In cosa consiste l’oblomovismo? Nell’essere illuminati dalla “luce uniforme dell’indolenza”. Oblomov passa il tempo a rimuginare sulle sue afflizioni anziché trovare un’alternativa, a evitare i problemi anziché risolverli. I suoi ideali sono accartocciati all’angolo di un letto. Quello che vorrei farvi notare è che Oblomov, nell’età dell’inettitudine, ha trentatré anni come gli anni che visse Gesù Cristo e gli anni in cui l’Ubermansk, o superuomo, torna tra gli uomini per divulgare la sua saggezza. Oblomov, in risposta alla morte metaforica della concretezza dell’esistenza di Dio, si avvilisce perché non ha più guida, si lascia illuminare dal niente. Vent’anni dopo il Superuomo inverte la tesi oblomovista: ora l’uomo è come un bambino liberato dalle costrizioni del padre.
Ed è quindi questo il significato del termine de-pressione che ricorre tanto spesso nei nostri vocabolari? La mancanza di pressione, di regole, di ideali, di spinta emotiva a compiere qualcosa? La mancanza di qualcuno che giudichi e che detti leggi? Può essere la depressione la logica risposta a quella che Durkheim chiama “anomia”, ovvero mancanza di regole?
E allora cosa vivevano i greci? Una sorta di crisi maniaco-depressiva. Aiace rompe e squarta tutto, è infelice per il suo destino e orgoglioso della sua vita; può e deve scegliere quali regole rifiutare e quali applicare, per quale schieramento parteggiare. A noi piace particolarmente anche perché sceglie il lato sbagliato. Aiace, ribellandosi ad Atena che voleva aiutarlo nella sua missione, dimostra di non voler rassegnarsi alla finitudine della vita; dimostra di non voler sottostare a quell’imperativo categorico, molto simile a un più recente “memento mori”, che incombeva sugli antichi greci sotto forma di irridente dio dannatamente umano. Aiace non sceglie la morte ma la sua integrità psichica e morale, sceglie di “morire per delle idee” e sa pure per quali.
Essendo la vita una malattia mortale, probabilmente, è difficile parlare di “epoca delle passioni tristi”; al massimo, di epoca senza passioni.
E voi, in quale reciproco opposto vi ritrovate di più?