“Ninfee nere”: recensione del romanzo di Michel Bussi edito da E/O

Edizioni e/o pubblica il thriller dell'autore francese, che spiazza soprattutto con l'imprevedibile finale

Non mi capita molto spesso di cambiare radicalmente idea su un libro durante la lettura. Altrimenti detto, è difficile che, una volta inquadrato il tipo di storia, di stile e di autore che ho tra le mani, la mia opinione subisca una modifica sostanziale da quando me la faccio a quando arrivo alla fine.

Sarà deformazione professionale del lettore, buona capacità di osservazione, saper tirare le somme. Sarà che ho canoni abbastanza precisi su cosa mi piace e cosa no, su cosa trovo scorrevole e cosa noioso, e non ho bisogno di centinaia di pagine per avere una fotografia tutto sommato completa e attendibile di ciò che ho davanti.

Ebbene, Ninfee nere di Michel Bussi, edito da E/O, è uno dei rari casi di libro che mi ha spiazzata sul finire. Mi ero fatta una certa idea del romanzo – che vi racconterò a breve, per completezza di informazione – ma le ultime 50 pagine hanno cambiato tutto, portandomi ad apprezzare molto un libro che, fino a quel momento, mi aveva convinto ma non fatto impazzire. Dimostrazione lampante di come un buon artificio narrativo, una buona costruzione possano davvero farci ricredere, possano farci apprezzare, a posteriori, qualcosa che ci aveva lasciati tiepidi.

Per vostra sfortuna – o fortuna, non lo so, dipende se deciderete o meno di dare una chance a questo libro – non posso dire di più, non posso entrare nel dettaglio senza svelare il cuore dell’artificio, come l’autore riesca a capovolgere tutto quello che pensiamo sul finale, come riesca a lasciarci davvero a bocca aperta.

Quello che posso dirvi è che, per larghi tratti, il romanzo di Bussi non è di una scorrevolezza “da thriller” – quindi incalzante, veloce, nervoso. L’andamento di “Ninfee nere” fa davvero pensare allo scorrere un po’ lento e sonnacchioso del bacino artificiale voluto da Claude Monet nella sua proprietà e che ha ispirato alcuni suoi celebri lavori.

La storia procede, ma con estrema calma. I personaggi si alternano in scena con il loro andamento – che è sempre, anche nel caso del commissario neofita nel piccolo paesino o del poliziotto in pensione richiamato per indagare su un omicidio, lento, misurato, placido. Muoiono delle persone, durante il romanzo, ci sono indagini, indagati e false piste, eppure non si ha mai la sensazione di star vivendo una storia che procede di corsa. È più una tranquilla passeggiata in campagna.

Questo, come ho anticipato, per larghi tratti. Poi, sul finale, succede qualcosa che cambia tutto, che porta a rivalutare ogni singola riga che abbiamo letto e, talvolta, dato per scontato prima. Tanto di cappello all’autore Michel Bussi, un vero mago della narrazione, per ciò che mi riguarda.

A un’osservazione superficiale “Ninfee nere” potrebbe far pensare solo a un giallo che unisce mondo dell’arte, storia e un tranquillo paesino della campagna francese – con i suoi abitanti da manuale, la bella maestra sposato a un uomo geloso, la vecchia in nero che osserva da lontano e nessuno vede, i bambini, il commissario e i poliziotti. Un giallo ben scritto, ma pur sempre un giallo come ce ne sono tanti.

Il finale cambia tutto. E fa venire voglia di rileggere il libro dall’inizio, per vedere sotto la giusta luce ogni dettaglio, ogni passaggio, e sorprenderci ancora una volta di quanto possiamo essere ciechi, quando si tratta di narrativa – o, detto in altro modo, di quanto un bravo scrittore possa farci guardare in una direzione, mentre la risposta è proprio sotto il nostro naso. Chapeau.

 

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