di Davide Martini
Tra le tante strisce dei Peanuts del disegnatore americano Charles Shultz ne esiste una in cui Snoopy, il fidato cane di Charlie Brown, discute insieme a Linus Van Pelt del suo innovativo metodo per leggere un libro, quello che prevede a lettura di una sola parola al giorno.
La battuta non è di quelle da sbellicarsi dalle risate, tuttavia – è risaputo – l’umorismo shultziano procede per sillogi e massime eccedenti, che hanno sempre l’obiettivo di indagare a fondo l’universo popolare in maniera semplice, ma non puerile. Anche in questo caso l’arguzia «Mi piace riflettere su ciò che leggo» può risultare interessante per sviluppare alcune riflessioni sulla pratica della lettura.
Facciamo due conti. Se prendessimo alla lettera il suggerimento di Snoopy, che per nostra fortuna non è mai troppo fedele alle proprie intenzioni, per leggere Guerra e pace, romanzo composto da circa 544.400 parole, secondo le stime di una recente ricerca, non ci basterebbe una vita intera. Avremmo infatti bisogno di almeno diciassette o diciotto esistenze, ciascuna di almeno 80 anni di durata, per concludere l’impresa.
Matematica a parte, la vignetta in questione pone un semplice quanto complesso interrogativo: quali sono i meccanismi che si innescano dentro di noi quando leggiamo?
La domanda se l’era già posta un grande critico, da poco scomparso, Ezio Raimondi. Questi, nel volumetto L’etica del lettore, rispondeva che quando siamo immersi nella lettura è la nostra esperienza a riempire il testo. A quest’esperienza veniva dato il nome di “logosfera testuale”, ossia uno spazio in cui il lettore osserva allo specchio la propria immaginazione. Anche per il filosofo tedesco Novalis valeva pressappoco lo stesso meccanismo, infatti dichiarava che «Il vero lettore è un autore amplificato». Secondo Jorge Luis Borges il libro è invece un «gabinetto magico di spiriti stregati», in grado di svegliarsi qualora interpellati.
In qualunque modo la si voglia guardare, la lettura ha il potere di attivare una voce interna che, a dispetto della sua apparente mutezza, non sta mai in silenzio, ma soprattutto non sviluppa mai un monologo individuale. Proseguendo nel parafrasare il pensiero di Raimondi, leggere è infatti un atto interpretativo che, verificando l’unione del suono con il significato, riproduce una sorta di secondo soggetto, attraverso il quale sperimentiamo attivamente la tensione verso l’altro. Per leggere bene è allora necessario cogliere attentamente quella ricchezza e quella complessità di significati che ci permettono di avvalorare tutti particolari del testo. L’esattezza di questa osservazione “invisibile” non abolisce affatto il nostro giudizio, ma anzi lo sollecita al massimo delle sue doti critiche.
Siamo a questo punto in grado di rispondere al simpatico Snoopy, premurosissimo osservatore dell’invisibile: la forza vitale della lettura non risiede nella singolarità delle parole di un libro. Tecnicamente noi non leggiamo mai un libro in maniera monolitica e lineare, bensì inframezziamo questa prima lettura con quella di un saggio, di un articolo di giornale, ma anche di un cartellone pubblicitario, di un’insegna, e via dicendo. La nostra esperienza in questo modo assume più l’aspetto di un rizoma o di un labirinto virtuale, che non quella di una freccia direzionata.
Riflettere sui testi significa dunque mettere in relazione una molteplicità di esperienze che si intrecciano con la nostra vita quotidiana e con i nostri ricordi. Per questo aveva forse ragione Italo Calvino quando, nelle Lezioni americane, sosteneva che la vita non è altro che una «combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni».