Lo scambio dei piani e del ruolo nella narrazione dei due protagonisti compie un altro deciso passo avanti. Se nel primo romanzo della serie, la scrittrice Erica Falck era centrale nella storia e nelle indagini, e il poliziotto Patrick Hedström risultava poco più di un figurante o di un aiutante, adesso la situazione non potrebbe essere più diversa.
A dire il vero la cosa mi ha fatto un po’ di tristezza – non perché non ami il protagonista maschile della storia, il suo modo di approcciarsi ai casi e lo spaccato di vita professionale che ci apre davanti, ma per i sottintesi che questo spostamento di prospettiva porta con sé. Perché, leggendo, ho avuto la sensazione di intravedere tra le righe l’idea che una donna, con la maternità e la creazione di una famiglia sua, perda il ruolo di protagonista attiva nella società? È un po’ triste. Che Erika resti incinta, abbia la bambina, e per questo venga relegata a essere poco più di una spettatrice degli eventi, un po’ depressa, scossa dalla nascita della piccola, sovrappeso e infelice. Che del suo carattere, della sua forza, della sua vitalità resti solo un’ombra sfumata. Che sia così apatica da non interessarsi neppure più del destino della sorella tanto amata e dei nipotini.
La donna che vediamo in questo libro è spenta, e fa tristezza. Non tanto perché la figlia mini ogni sua certezza – questo ci può stare, lo dicono tutti – ma perché non mostra il minimo desiderio di reagire. Avere un figlio è qualcosa di sconvolgente, ma non dormire molte ore la notte non è una buona scusa per adagiarsi in una vita vuota e piatta, e snaturarsi (anche perché se un bebè ti fa questo effetto, chi ha due gemelli – o tre – cosa dovrebbe fare?).
Probabilmente io avrei gestito il tutto in modo differente – ma ovviamente è solo un appunto concettuale, da donna e futura mamma che spera di non scomparire dalla scena sociale con l’arrivo dei figli. Che sperare di restare se stessa, comunque vada.
Detto questo, il terzo caso che Camilla Läckberg decide di ambientare nel microcosmo di Fjällbacka è, a oggi, quello che mi ha convinta e coinvolta di più. Perché siamo ancora una volta all’interno di uno spazio ristretto e il colpevole è, ancora una volta, un insospettabile, eppure c’è qualcosa di diverso. Prima di tutto il fatto di alternare presente e passato aiuta ad allargare la prospettiva. E poi l’intrecciarsi di storie diverse, quasi di “casi” diversi, fa il resto.
Se nei due libri precedenti, a un certo punto, subentrava quasi un senso di noia, il pensiero di star battendo sempre le stesse piste, nello “Scalpellino” questo non accade mai.
Cosa dire dei personaggi “secondari”, degli assassini di oggi e di ieri? Non mi capita spesso di provare brividi di disgusto leggendo di gesta criminali. Da un lato non sono un’appassionatissima dei thriller, quindi di veri cattivi non ne ho forse mai trovati, dall’altro riesco sempre a tenere distinti i due piani, quello della finzione e della realtà. Ma in questo caso… Può una donna essere tanto insensibile? Tanto concentrata su se stessa da sacrificare senza scrupoli e senza ripensamenti due bambini innocenti – i suoi bambini!-? Sono rimasta allibita.
Il fatto che poi, nel presente, un’altra donna faccia quello che fa sembra quasi meno grave, paragonato a ciò che è stato. Perché crescere con un personaggio del genere… come si può sfuggire alla corruzione? Come si può essere differenti?
Un libro che, giallo e investigazioni a parte, porta anche a interrogarsi sul concetto di famiglia. Gli esempi felici – ma soprattutto infelici – che ci vediamo sfilare davanti ci portando a chiederci quanto sia complesso vivere insieme, quali equilibri tengano in piedi ciascun nucleo, ciascuna coppia. Quanti dettagli non conosciamo (o fingiamo di non conoscere) della persona che dorme con noi? Cosa siamo pronti a sacrificare per il quieto vivere/la rispettabilità/il timore di venire giudicati? E soprattutto, quando troppo è troppo? A questa domanda, forse, risponderà il quarto libro della Läckberg.