di Rosy Franzò e Pietro Pirosa
La prima volta in cui ti vidi eri talmente imperfetto che pensai che nonna Tilde avesse ragione. Avrei dovuto mettere sotto la tua culla otto pugni di sale, bere acqua di pozzo e invocare le anime del purgatorio. Poi dire tre volte: Maria Santissima abbi pietà di lui, affidarti alle mani del primo angelo in volo e assicurarti al collo una catena della buona morte.
Inizia così “Le streghe di Lenzavacche” (e/o edizioni), il nuovo romanzo di Simona Lo Iacono, magistrato prestato all’arte della scrittura.
L’autrice narra due storie che si sviluppano in modo indipendente l’una dall’altra dal punto di vista temporale e poi scorrono parallele, apparentemente destinate a non incontrarsi mai. In realtà, grazie a un semplice meccanismo narrativo, finiscono per diventare complementari e complici, procedendo sui rispettivi binari letterari, scorrevoli e intriganti.
Il lettore si trova dinanzi a una architettura composita, a un labirinto di personaggi e vicende umanamente complesse, nelle quali il valore funzionale del singolo è determinato e valorizzato dall’interagire, intersecarsi, scontrarsi, sovrapporsi con gli altri in un tutto unico. Questo “caotico mosaico” troverà poi esplicitazione nella linearità di una tragica storia di solitudine, emarginazione, ignorante pregiudizio.
Con una costruzione narrativa intensa, appassionante, struggente, condita con raffinatezza poetica , la Lo Iacono ci conduce per mano tra le stradine e le “trazzere ” del piccolo e sperduto borgo siciliano di Lenzavacche – nomen omen, dicevano i latini -, sospeso fra mare e terra, colorandolo qua e là, con sapienti pennellate, di un suggestivo “realismo magico” meno ingenuo e spirituale di quello sudamericano, a cui è stato accostato, anni luce dal mondo quasi fiabesco di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez.
Corre l’anno 1938, l’Italia il sabato veste alla balilla, i ragazzini cantano “Fischia il sasso” e anche a Lenzavacche «ululano le sirene che inneggiano al fascio». Ed è proprio in questa atmosfera oscurantista, che esalta la teoria del darwinismo sociale, la purezza della razza , la forza, la prestanza fisica, la salute che dal ventre, sacro e profano al contempo, di mamma Rosalba nasce Felice. Nasce tra le fragranze dell’ibiscus, le tisane di camomilla e cardamomo per il sonno, quelle di aloe e valeriana per la fantasia di nonna Tilde, esperta di erbe officinali di cui conosce i più reconditi e oscuri segreti e principi curativi, pioniera ante litteram della moderna fitoterapia.
In una famiglia matriarcale, declinata al femminile, Felice vive oggettivamente da infelice o, come si direbbe oggi, con un sottile e perfido velo di ipocrisia, da “diversamente felice”. Un bambino malformato, punito dalla fatal sorte, destinato a un’eterna solitudine, a un’esistenza che nega qualsiasi speranza di riscatto umano piuttosto che sociale.
Ovunque si faceva il vuoto, Felice. A qualsiasi orario rincorrevo per te la vita, e la vita fuggiva, si scansava lesta al tuo passaggio, era intuitiva e feroce, la vita, ti fiutava come una bestia pericolosa e – inesorabilmente – ti lasciava indietro.
Eppure, quasi come un piccolo Ulisse – ricordate il dantesco “fatti non foste a viver come bruti”? – Felice è assetato di conoscenza, ama ascoltare storie. Il marchio del diverso, la “lettera scarlatta” della vergogna, nella società omologata del fascio littorio lo segue come un fedele segugio, non solo perché è deforme e incapace di parlare, ma perché discende da «un gruppo di streghe del Seicento, che erano in realtà mogli abbandonate, donne gravide, figlie reiette o emarginate, riunitesi in una casa ai bordi del paese e bruciate come seguaci del diavolo. Sono le escluse, le dimenticate, le ultime per eccellenza. Ma nel gruppo trovano forza, comprensione, condivisione. Iniziano quindi a vivere una esperienza comunitaria».
A leggere queste parole può venire in mente il clima cupo della caccia alle streghe evocato in un altro grande romanzo di inizio anni ’90, “La chimera” di Sebastiano Vassalli.
Due donne, Antonia e Rosalba, innocenti colpevoli, per la propria bellezza l’una, per la sua indole indipendente e la tendenza a essere una sognatrice l’altra. «La prudenza non si addice all’amore, è una nemica dell’improvvisazione, guasta lo slancio, la fantasia, la felicità».
E in mezzo? Un “popolino”, né buono né cattivo, solo ignorante e pericoloso, incline a una pazzia collettiva, schiavo della superstizione che ne condiziona il modo di pensare e di agire, che sfocia in un fanatismo religioso e nell’intolleranza culturale. Tilde e Rosalba sono vittime di un anti-femminismo cieco, che impone di fuggire la donna “arma del demonio”, causa prima della nostra perdizione.
Sono tollerate la moglie che assicura la progenie, la madre che alleva i figli, la tessitrice operosa, la contadina instancabile, la vecchia fidata e silenziosa, la suora murata nella sua clausura, ma tutte le altre sono sospette, in particolare le giovani, belle e libere, che suscitano odio e inconfessabili desideri.
Con un pizzico di teatralità pirandelliana e il senso critico e illuminista di Alessandro Manzoni, l’autrice confeziona un romanzo storico dove finzione e verità si mescolano, si confondono, s’intrecciano in una favola dalla morale amara, dai contorni sfumati, meravigliosamente indistinguibili.
La scrittrice entra nel romanzo, prende parte alla sua storia. Sceglie con chi stare perché ha la capacità di ascoltare e ode quindi le strazianti “urla del silenzio” di Felice, di sua madre, di tutti gli ultimi, i diseredati per antonomasia della Storia; sente la loro voglia di vivere in pienezza, di conoscere, leggere storie e allora, che fa? Semplice, dà loro voce, dona loro, almeno metaforicamente, la parola, per far sì che abbiano «un’opportunità di riscatto, di raggiungere una conquista interiore, per ribaltare il destino», contrapponendo lo spirito anarchico, libero da ipocriti e vili legami, delle “streghe” , a quello miseramente acritico, moralmente bacchettone della massa, sottomessa ai dettami del regime dell’epoca.
In una società dogmatica e autoreferenziale, che disprezza e aborra la diversità e se potesse, ricorrerebbe al Monte Taigeto, come metodo di selezione naturale per plasmare una razza superiore, non tutti abbassano la testa. Ci sono “angeli umani”, paladini di giustizia, che vanno al di là delle apparenze, che valorizzano le variazioni perché in esse vedono delle risorse.
Mamma Rosalba indossa la toga dell’avvocato e va alla ricerca di una legge, mai applicata prima, che permetta a Felice, figlio di un “Dio minore”, di frequentare la scuola, seppure in classi differenziali, dandogli così una chance, una seconda possibilità di riuscita. È qui che la sua storia s’incrocia con quella di Alfredo, maestro elementare, che proprio grazie alla presenza dell’allievo disabile raggiunge il numero minimo di alunni necessario per mantenere la classe, che altrimenti sarebbe stata soppressa.
È un incantatore: racconta storie per commuovere ed emozionare. Non vuole fare dei soldati, ma degli esseri pensanti, responsabili. Aiutare i piccoli a trovare la loro vera vocazione.
L’autrice crea un triangolo che funge da protesi per il bambino, il cui terzo vertice è rappresentato da U dutturi Mussumeli, mente aperta e stravagante, libertino, che suole ripetere come «la normalità è questione di postazione e varia a seconda della trincea dietro la quale ci acquattiamo».
Nel romanzo, Simona Lo Iacono dà un ruolo da protagonisti anche ai libri, alla letteratura, “finestre sul mondo e farmaci per l’anima”, utilissimi per capire, interpretare, tradurre le innumerevoli e cangianti sfaccettature della realtà.
Coltivo questa idea oltraggiosa che la letteratura possa fungere da corazza, che sia la coltre dei cento nodi, il manto del re nudo.
Per quello che riguarda il registro linguistico, l’autrice passa dall’io narrante a una polifonia di voci, che fanno da colonna sonora a una storia dal retrogusto apparentemente fiabesco, pregna però di suoni, odori, colori mediterranei mescolati con trame esoteriche, leggende misteriose che si perdono nella notte dei tempi – come ad esempio quella dei “cunti”, lentamente declamati nelle notti afose da nonnine vestite di nero o da vecchi saggi con la coppola, nei cortili, nei vicoli, nelle piazzette di una Sicilia che ormai non c’è più.