“La principessa sposa”: William Goldman tra metaletteratura e fantasy

Marcos y marcos pubblica il romanzo d'avventura da cui è tratto il film "La storia fantastica"

Leggere il libro da cui è tratto un film che avete visto sì e no un centinaio di volte (ignorando completamente che la storia fosse ispirata a un romanzo) è sempre un rischio. Come sarà mai questo originale? Quanto avranno modificato, gli sceneggiatori, di questa idea iniziale? I personaggi saranno gli stessi? E la trama?

I punti di domanda, lo avrete capito, erano tanti. Ma quando ho scoperto l’esistenza della Principessa sposa” di William Goldman non ho potuto resistere più di una settimana a procurarmi il libro e immergermi nella lettura.

Diciamo che, soprattutto inizialmente, sono rimasta un po’ basita. Il modo scelto dallo scrittore statunitense per gestire questa storia è tutt’altro che convenzionale. C’è un primo livello che è il tempo presente, il qui e ora (anche se gli accenni al paese di Florin e alla sua reale esistenza ci portano fin da subito a dubitare della veridicità di tutto quello che si trova scritto nel libro), dove vediamo Goldman vivere la sua vita e mettersi alla ricerca del romanzo di Morgenstern che gli ha cambiato l’infanzia.

E poi ce n’è un secondo, quello della narrazione vera e propria, nel quale si dipana la storia di Buttercup e Westley e di tutti gli altri personaggi. Il confine tra i due piani è tutt’altro che netto. Di tanto in tanto, infatti, Goldman prende la parola – in corsivo – per dirci la sua, spiegare qualche passaggio, ragguagliarci sulle parti del libro che ha tolto.

Perché quello che stiamo leggendo, sia chiaro, non è il romanzo originale di Morgenstern che il padre aveva letto all’autore da giovane e che lui si è dato tanta pena, oggi, per ritrovare, ma una sua personale riscrittura. Pensata apposta per presentare ai lettori solo il meglio della storia, togliendo di torno i passaggi pesanti e poco funzionali alla narrazione.

Detta così la cosa potrebbe sembrare macchinosa, in realtà le due vicende parallele si seguono bene, anche se nel film viene mostrato solo il primo passaggio (il nonno che legge il libro al bambino malato e la storia epica dell’amore tra la bella e il garzone, senza inserimento dello scrittore e della riscrittura).

A dire il vero quello che mi ha lasciato basita non è tanto questo intreccio di piani narrativi, quanto lo stile. E l’uso dell’ironia. L’inserimento – soprattutto nelle prime parti – di parentesi con scritte cose come: “Ciò avvenne dopo l’avvento degli specchi” oppure “Ciò accade sopo lo stufato, ma è così per tutto. Quando il primo uomo uscì strisciando dal fango e costruì la prima casa sulla Terra, quella sera mangiò stufato, per cena” sconcertano un po’. Diciamo che se ne capisce il senso ironico, ma non se ne sente la necessità. Sono dei vezzi, di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.

Il secondo elemento che mi ha disturbato è, appunto, l’ironia. I personaggi e la storia d’amore che sul piccolo schermo sembravano così epici qui perdono molto del loro spessore.

Buttercup (alias Bottondoro) viene descritta come una ragazza bellissima, ma non particolarmente brillante né fantasiosa, che si innamora nel giro di una notte e poi decide consapevolmente di sposarsi senza amore. Le sue azioni delineano un personaggio un po’ vuoto, che non coglie molto bene i sottintesi e le situazioni, e si comporta quasi come una bambina.

Westley, d’altro canto, se anche esce molto meglio dell’amata (si dimostra brillante, coraggioso, impavido), ha in sé anche un che di grottesco, di esagerato. Non somiglia molto all’eroe che ricordavo dal film, purtroppo. A guardarli insieme, i due protagonisti non sembrano veri, ma stereotipati fino all’eccesso. I loro difetti vengono messi in mostra, così come la natura del loro amore viene sminuita.

Il libro ha più l’aspetto di una parodia dei romanzi d’amore che di un romanzo d’amore vero e proprio. E questo, da appassionata del film, mi ha delusa. Per me quella di Bottondoro e Westley era prima di tutto una storia d’amore epica e invece… qui i due sembrano figurini piccini piccini, tutt’altro che eroici e anche poco innamorati.

È che, anche se Goldman ci dice che c’è del sentimento tra loro, nel libro manca qualunque scena che ci mostri questo trasporto. Nel film, al contrario, l’attrazione e l’affetto venivano fuori da piccoli gesti e sguardi, ma anche da qualche bacio finale tanto scenografico. Nel libro si perde tutto.

Gli altri personaggi, invece, non sono così deludenti. Forse perché nel loro caso la stereotipizzazione funziona e non toglie romanticismo e magia alla storia. Anzi, il romanzo ha dalla sua l’approfondimento delle storie passate dello spadaccino spagnolo Inigo Montoya e del gigante Fezzik, dei macabri passatempi del Principe e via dicendo.

Come spesse succede, un adattamento cinematografico non può permettersi di mostrare troppi flash back – soprattutto se questi non sono strettamente funzionali al procedere della storia -, mentre uno scrittore può descrivere in lungo e in largo gli antefatti familiari e le vicende dei suoi personaggi.

Per concludere, mi è piaciuto o no questo libro? Sì e no. Mi ha fatto sorridere e ammetto che certe trovate narrative sono interessanti. Le storie d’avventura, poi, si leggono sempre bene, perché ti fanno tornare bambino e volare con la fantasia. Ma se dovessi scegliere tra il romanzo e il film, a oggi, scegliere ancora il secondo. E questo la dice lunga.

 

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