Quando un libro riesce a trasmettere non soltanto delle emozioni ma anche delle vere e proprie sensazioni, quando con la forza delle immagini e delle parole riesce a far viaggiare il lettore, a farlo sentire come se si trovasse davvero in un altro luogo e in un altro tempo, possiamo dire senza paura di sbagliare che è stata compiuta una piccola magia.
Lavanya Sankaran si dimostra maestra in quest’arte sottile, costruendo una storia capace di coinvolgere fino all’estremo, di veicolare elementi sottili come gli odori, i rumori, l’essenza stessa di un luogo – l’India – enormemente distante dalla nostra vita di oggi. Per questo mettere giù il romanzo una volta finito è stato un piccolo dolore, perché i personaggi erano diventati quasi degli amici, perché vivere e camminare al loro fianco era diventata un’abitudine.
Il romanzo procede sue due binari paralleli (anche dal punto di vista della costruzione della storia, con l’alternanza dei punti di vista e delle voci narranti), che in certi momenti si incontrano. Da un lato abbiamo la storia di Anand, uomo benestante, marito e padre, proprietario di una fabbrica, che cerca di ampliare la sua attività e per questo si trova a fare i conti con la corruzione e i giochi di potere considerati naturali nella società indiana. Nonostante la sua voce suoni come quella di una persona fin troppo gentile e pacata, il personaggio riesce a emergere e a superare lo status di buono e basta, un po’ con la forza di carattere che dimostra, soprattutto quando s’impone sul suocero invadente e maneggione, un po’ per via della crisi coniugale che attraversa. A ben vedere questi sono elementi “negativi” (pensare di tradire la moglie, imporsi su un anziano per quanto sgradevole), ma invece di sminuire Anand ai nostri occhi riescono a renderlo più umano, meno perfetto. Migliore, almeno dal punto di vista narrativo.
Dall’altro lato, c’è Kamala. Lei lo si capisce subito, fin dalle prime battute, di che pasta è fatta. Sopravvivere in un mondo duro e difficile come quello cittadino senza avere un uomo accanto, in India, è un’impresa non da poco, e lei ci è riuscita, rimboccandosi le maniche e lavorando dove possibile, senza per questo rinunciare a tenere il figlio Narayan con sé. Quando il libro inizia Kamala ha raggiunto una specie di tranquillità: lavora in casa di Anand, ha un tetto onorevole sulla testa, sta cercando il modo per garantire al figlio le possibilità che lei non ha mai avuto. Non vorrei passare per Biancaneve, dimostrando sconcerto per una condizione – quella della serva in casa di signori – che in passato molte donne hanno vissuto anche in Italia (e anche oggi, se pensiamo alle colf e alle badanti…). Eppure vedere come la moglie di Anand trattava queste donne alle sue dipendenze – la normalità, mi rendo conto – ogni volta era uno shock.
Le storie di questi due personaggi, e di tutti quelli che girano loro intorno, non sono due facce della stessa medaglia, sarebbe troppo semplice. Io preferisco vederle come due delle tante e sfaccettate facce di un prisma irregolarissimo, che rappresenta la società nel suo insieme. La società indiana – così come ogni altra società – è formata da una serie di strati, dove troviamo persone con esistenze e problemi totalmente diversi tra loro. La fabbrica della speranza è un bel romanzo perché riesce a dare voce a tutti, al ricco come al povero, alla donna come all’uomo.
Vicende difficili, problemi quotidiani ma che hanno a che fare con la natura stessa dell’esistenza. Eppure il romanzo ha un che di profondamente poetico. Ed è questo quello che più mi ha impressionato. La storia si legge con enorme piacere perché ogni passaggio, ogni scena, è descritta con minuzia, fornendo al lettore tutti gli elementi per immedesimarsi non tanto e non solo nelle vicende dei protagonisti, ma nell’ambientazione stessa. Leggendo si ha davvero la sensazione di essere nella caotica Bangalore, nella casupola fatiscente di Kamala così come nella casa lussuosa di Anand e famiglia.
L’autrice non aveva, forse, come primo obiettivo quello di impartire delle lezioni sociologiche, geografiche, culturali, eppure attraverso le vicende romanzate che racconta è riuscita a fare anche questo, e come possiamo non considerarlo un qualcosa di positivo? Leggendo dei problemi lavorativi dell’uno e dell’altra, accompagnando Anand e Kamala tra tradizioni e consuetudini facciamo una vera e propria immersione nella vita indiana.
E quando chiudiamo il libro ci sentiamo più ricchi. Non solo per la storia più o meno edificante che abbiamo letto – tra parentesi, ho apprezzato molto anche il finale un po’ agrodolce, non del tutto positivo e smielato, ma credibile – ma anche perché abbiamo l’impressione di conoscere un po’ meglio l’India. La mentalità di chi ci vive, i meccanismi della vita di tutti i giorni.