Intervista doppia: a colloquio con Flavia Ripa e Giulia Angeloni

Giulia Angeloni e Flavia Ripa, cantastorie, giullari, personaggi fuori dal tempo che cercano di coinvolgere il pubblico in un tipo di performance che non è solo discorso degli interpreti tra loro, ma dialogo. Con “Santi, balordi e poveri cristi”, uno spettacolo che unisce affabulazione e musica, portano in giro per le piazze e i teatri italiano il fascino della tradizione orale, della narrazione che trae spunto dai racconti, dalle fiabe, dai canti popolari.

Ironiche, allegre, complicate – in una parola sola, donne -, Giulia e Flavia lavorano insieme per dare vita alle piece, senza però rinunciare alla propria individualità. Il pubblico sta imparando a conoscerle grazie a uno spettacolo diverso dal consueto, capace di far ridere e affascinare. Uno spettacolo che però nasconde una sua complessità, un significato profondo che ognuno deve scoprire. E non provate a dire che non ci sia un lavoro importante dietro, fatto di di ricerca e studio: le due autrici e interpreti non ve lo perdonerebbero.

Diamo il benvenuto su Parole a Colori a Giulia Angeloni e Flavia Ripa.

 

Nell’immaginario collettivo il cantastorie è un uomo, di una certa età, che va in giro da solo. Voi siete due ragazze belle e giovani. Perché avete deciso di fare questo mestiere, sempre se di mestiere si può parlare?

GIULIA: Be’, io ho sempre avuto una gran fame di storie. Ad ascoltare qualcuno che racconta vengo ‘presa d’incanto’, come dice Omero quando parla dei cantori. La narrazione ha tantissime forme ormai e personalmente ne amo molte. Ma questa immediata, primitiva, in cui qualcuno racconta a qualcun altro, senza bisogno di nulla più se non il corpo, la voce e le immagini che evoca è per me ancora una delle più potenti e affascinanti. Perché richiede a chi guarda un’attività immaginativa forte, il narratore evoca, offre una parte per il tutto ma poi è lo spettatore a costruire il restante attorno. Ecco perché mi sembra che in questo tipo di teatro ci sia un legame particolarmente forte con il pubblico, perché si condivide un’esperienza, è veramente come fare un viaggio insieme; noi mettiamo la macchina, portiamo una cartina, ma già sulla benzina mi verrebbe da dire che la dividiamo. E questa condivisione non è scontata, è una delle esperienze che sia da attrice che da spettatrice mi restituisce di più. E poi il racconto orale cerca la semplicità, nel senso più alto del termine; è paratattico, parla per immagini. È una forma che può essere estremamente popolare – forse tra le più popolari che l’essere umano conosca, da sempre – e allo stesso tempo restare nobile, ricca, universale.

Il cantastorie, nell’immaginario collettivo, è un uomo per ragioni storiche. È un fatto di cui siamo consapevoli e col quale ci divertiamo a giocare per fare poi una proposta diversa. Ma al di là di questo, non credo abbia molta importanza il sesso, quando si racconta. Nelle storie che interpretiamo, per esempio, non indossiamo i panni di un personaggio. Ci limitiamo a evocarne molti contemporaneamente, proprio perché al centro non c’è l’interprete ma il racconto. Quindi non è discriminante se a narrare sia un uomo o una donna, se sia giovane o vecchio. Probabilmente il risultato finale sarà diverso, così com’è differente la sensibilità di ogni individuo che nel dare vita e voce a una storia passerà attraverso ciò che sa della vita, il proprio sguardo, le proprie esperienze e quindi anche il sesso, l’età. Ma questo è proprio ciò che rende particolare e personale il lavoro di un interprete, ancor di più se è anche autore, come nel nostro caso.

C’è da dire, però, che se il cantastorie di mestiere era uomo, all’interno delle mura domestiche era soprattutto la donna a essere narratrice – le cucine sono state a lungo luogo di racconti. Senza dimenticare affabulatrici d’eccellenza come la Sharazade delle Mille e una notte! Anche ultimamente non ci sono mancati esempi di attrici/narratrici, Laura Curino per citarne una, o Franca Rame che è stata interprete e autrice di affabulazioni e giullarate non meno di suo marito.

FLAVIA: Ecco, diciamo che il cantastorie, almeno per me, non è LA scelta professionale, o meglio non è totalmente quello che ho scelto. In questo lavoro, un po’ per gioco, un po’ per necessità, vestiamo un ruolo, antico e maschile, lacero e vagabondo, di menestrelle sgangherate e piene di fame e curiosità. Un ruolo tipicamente maschile per giunta. Per me questo è un po’ un gioco di ruolo, fa parte dello spettacolo, non la vedo come una scelta per la vita o una poetica. Questo lavoro ci ha portato naturalmente dai nonni, dalle zie, da coloro che ci affascinavano con storie lontane e piene di fantasia o tanto vicine da sembrare invisibili. Il mestiere che avrei scelto, ed effettivamente chissà se oggi lo si possa definire tale, è l’attrice. Certamente ci sono corde che suonano meglio di altre, ma non ho difficoltà a dire che questo lavoro, intendo “Santi e Balordi”, è pienamente figlio di un passaggio, non è un finale o un arrivo, ma una scoperta. Non mi ero mai cimentata con la narrazione, anzi ho sempre temuto il rapporto diretto col pubblico, da “quartaparetista” come mi sentivo, ma poi mi ci sono buttata e ho scoperto tante cose, apparentemente lontane da me, ma solo perché poco esplorate. Ho cercato a lungo di non fare l’attrice, di evitare questo non-mestiere, in un paese e in un panorama privo di attenzione rispetto a questa sfera, direi culturale. Cercavo di evitare di fare la fame a ogni costo, di seguire una passione. È lampante che non si possa vivere di teatro – e questo si potrebbe entrare in un discorso molto lungo… – ma cerco comunque di farlo ancora, il teatro, dico. Perché dopo tante fatiche, dopo tanti ripensamenti, dopo tanta stanchezza, quando poi ti esibisci, e finisce quello che c’è dietro, le difficoltà di trovare uno spazio, un interlocutore produttivo, di fare il proprio lavoro, quando l’urgenza si esprime sul palco, ogni dolore, ogni fatica evapora e senti di poter continuare. Sento che è un lavoro che ti rigenera ogni volta che ti spezza. Ogni fatica è ripagata a fine replica. Come un parto. Certamente non è credibile che questa dinamica possa continuare così ad libitum. Per ora cerco di dare spazio alla mia concezione di lavoro: che è anche passione, desiderio e auto-realizzazione sincera aldilà delle convenzioni, non solo riconoscimento economico. E poi il perché uno sceglie di fare teatro ha senso solo nel farlo. È quello che vorrei fare da sempre, e quello che temo non potrò fare per sempre. Infatti si fa anche altro.

Santi balordi e poveri cristi, Ripa e Angeloni
Santi balordi e poveri cristi, Ripa e Angeloni

Talenti particolari, per essere cantastorie? Insomma, cosa non può mancare a chi vuole avvicinarsi al pubblico raccontando?

GIULIA: Un racconto da cui si abbia sempre voglia d’esser ‘presi d’incanto’! E un bisogno personale che induca il desiderio di condividere quest’esperienza con altri.

FLAVIA: Per raccontare appassionando altri bisogna far vedere, e per far vedere bisogna vedere per primi, immaginare, essere dentro quello che si dice, crederci e divertirsi. Trovare in ogni ripetizione la freschezza di un dettaglio inesplorato prima, dallo stesso autore-attore. Per appassionare bisogna immaginare e dipingere un’immagine, e poi raccontarla generosamente.

 

Il detto recita che la vita è maestra di vita. Ciò che raccontate, quindi, prende spunto da quello che avete vissuto come Flavia e Giulia? O si tratta sempre di invenzioni?

GIULIA: In questo lavoro siamo partite quasi sempre da racconti popolari, fiabe per lo più. Ci interessava la fiaba perché traduce in immagini forti alcuni tabù e prigioni sociali che l’uomo sviluppa in una determinata cultura. Quasi subito ci siamo accorte di essere attratte dal tema del ‘mostro’, del personaggio che abita fuori dai limiti di un ordine costituito o di un gruppo di appartenenza con cui non riesce o non vuole integrarsi. I soggetti sono inventati ma lo sguardo che ci ha portato a scegliere quelli e non altri è molto personale. Si tratta di temi che, anche se trattati in modo ironico e scanzonato, hanno molto a che vedere col nostro sentire e ci toccano da vicino. Quindi direi di sì, in qualche modo quello che abbiamo vissuto come Flavia e Giulia, anche se non esplicitamente, è molto presente.

FLAVIA: Quello che raccontiamo in “Santi e balordi” è una rielaborazione personale di materiale della tradizione orale. Ma come ogni rielaborazione, da autrici dei pezzi, adoperiamo il nostro immaginario, le nostre immagini culturali o la nostra memoria, quindi sicuramente quello che raccontiamo viene anche dalla nostra vita. I temi, per esempio, ricalcano i nostri interessi. Talvolta ritroviamo dei significati nuovi nelle storie, e retroattivamente ci spieghiamo cose che prima non avevano tanta importanza, che erano nate nel flusso creativo. Prendo ad esempio la storia di Scatolotto, una storia di mia invenzione: parla di un “omino della Sigma”, un omino che distribuisce volantini e che un giorno, di fronte al sensore indifferente delle porte del supermercato, scopre di essere trasparente e si spiega così il motivo del licenziamento. Successivamente fa un incontro con una misteriosa Donna Cannone in un albergo a luci rosse, la quale spiega all’omino che talvolta essere trasparenti è una magia, un pregio. Ma Scatolotto sceglie di suicidarsi perché “se non mi vedono, non esisto”. Questa è un cosa che si avvicina molto alla vita che vivo. Qualsivoglia sforzo tu faccia per divenire migliore, professionale, talentuoso è vano se il mondo intorno non sa chi sei. Questo discorso vale tanto di più per il nostro non-mestiere, fatto di immagine e visibilità. Mi perdo nello scrivere… La risposta è: “Santi e Balordi” è uno spettacolo sui personaggi “liminali”, su coloro che per un qualche motivo non possono essere accettati nella/dalla società, e che per potersi inserire devono compromettere o abbandonare parte della propria identità. Il compromesso di un diverso è normalizzarsi per entrare a fare parte del mondo. Non esiste accettazione senza perdita. Questo sì, me lo ha amaramente insegnato la vita.

 

Come vi descrivereste, usando solo poche parole?

GIULIA: Scanzonate, avventurose, sgangherate.

FLAVIA: Io, come Flavia, mi descriverei confusa, aperta, disponibile, eclettica, pigra. Come duo, Giulia e Flavia, scanzonate, intonate, propositive, avventurose, forti.

Giulia Angeloni, Santi balordi e poveri cristi

Si sente spesso dire che lavorare tra donne sia quanto di più difficile esista al mondo, tra invidie, gelosie, incomprensioni. Capita anche a voi, di tanto in tanto, di tirarvi i capelli e sbattere i piedi? Oppure la vostra sinergia professionale è quasi asessuata?

GIULIA: Eh sì, così si dice. Per quanto mi riguarda, invece, mi capita di sentirmi particolarmente a mio agio nella collaborazione con altre donne. Non ho mai avuto grosse esperienze di invidie e gelosie femminili, anzi mi viene abbastanza naturale instaurare rapporti di sorellanza e complicità con le donne, non meno – e anzi delle volte più facilmente – che con i colleghi maschi. Poi, certo, è sempre questione di sintonia personale. Le prime donne non mi piacciono neanche un po’ e mi sento molto poco interessata sia a loro che alle relazioni che instaurano. Prediligo tutt’altro tipo di rapporti e sono quelli che poi vado a cercare nel mio percorso. I conflitti tra me e Flavia non mancano, com’è normale che sia quando ci si confronta con qualcuno su una creazione artistica. Si tratta di mettere insieme sensibilità diverse e trovare punti di incontro che delle volte passano necessariamente anche per lo scontro. Ma penso che un po’ di conflittualità in un processo creativo sia salutare, aiuta a non fermarsi alla superficie, a non accontentarsi finché non si è entrambe soddisfatte. E se le posizioni di partenza non sono troppo allineate, l’opportunità di crescita può essere maggiore.

FLAVIA: Beh, ci sono incomprensioni, ci sono litigi, ma più che altro per vedute artistiche, scelte che faremmo in modo opposto, cose che una non farebbe e l’altra invece si, i compromessi insomma. Non ci tiriamo i capelli, ma i primi tempi trovare una sinergia era complesso. Abbiamo vedute e gusti molto lontani fra loro, ma anche molti punti in comune. Ora che le cose sono più rodate sappiamo come dirci le cose, ma questo vale per tutto. Direi che più che gelosie o invidie ci sono molte incomprensioni, ma le sentiamo come parte del lavoro. La conflittualità ci aiuta a non “sederci” troppo sulle scelte e metterci sempre a riconsiderare le cose; questo le rende vive – faticose, ma vive. Credo questo traspaia sul palco.

 

Non vorremmo essere noi a farvi litigare, ma… un pregio e un difetto dell’altra?

GIULIA: Pregio: è acuta e mai banale. Difetto: a volte non dà abbastanza valore a quello che fa.

FLAVIA: Pregio: sa prendersi il tempo che ci vuole, senza fretta. Difetto: sa prendersi il tempo che ci vuole, senza fretta.

 

Come nascono le vostre storie? Vi sedete al tavolino e cercate, insieme, di creare una narrazione che regga oppure è tutto meno schematico e più improvvisato?

GIULIA: Dipende. Solitamente partiamo da una storia, una sorta di traccia. Da lì alle volte cominciamo a improvvisare, e facciamo una prima stesura rispetto al materiale venuto fuori. Poi magari torniamo a improvvisare e a scrivere di nuovo il testo in base alle suggestioni ottenute dal lavoro pratico. Insomma cerchiamo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte; tendiamo a tenere aperto un processo ‘a caldo’ e al contempo ad assecondare la necessità di formalizzare, quando la sentiamo. Ma non è che sia proprio un metodo, cerchiamo di seguire quello di cui abbiamo il bisogno. Non tutte le storie hanno le stesse necessità di composizione, dipende anche dal linguaggio con cui intendiamo costruirle. Il racconto del bambino a due teste, per esempio, che è interamente musicale, ha avuto bisogno di un assetto formale definito dovendo essere scritto in metrica. In quel caso abbiamo composto il testo tutto a tavolino, di pari passo con la musica, e solo dopo ci siamo occupate dell’interpretazione.

FLAVIA: Dopo una fase di studio e di lettura di favole e racconti di tradizioni anche lontane geograficamente abbiamo cominciato a selezionare il materiale. Le nostre storie sono nate da momenti anche ludici: una raccontava all’altra una storia che l’aveva colpita e viceversa. Ne parlavamo, ci offrivamo dettagli divertenti, aprivamo possibili strade del racconto. Ce le raccontavamo di sera, come storie da buonanotte. Poi ognuna ne sceglieva una, da proporre o rielaborare, e con i propri tempi la proponeva all’altra in scrittura. Le storie vivono sempre di questo scambio/feedback/incontro dove cerchiamo di colpirci con le storie e ci aiutiamo l’un l’altra a raddrizzare il bersaglio, dandoci suggerimenti, regalandoci immagini, stroncandoci le idee che non portano a nulla. Una volta trovate le storie, talvolta ci sediamo a tavolino e ci prendiamo la libertà di improvvisare; dalle improvvisazioni ricaviamo altri stimoli, poi da li si va avanti a istinto.

Flavia Ripa, Santi balordi e poveri cristi

Vi siete esibite al Fringe di Roma, davanti a un pubblico abituato ad aspettarsi un po’ di tutto. Com’è stata accolta la vostra proposta? E in cosa si differenzia da uno spettacolo “classico”?

GIULIA: Il pubblico è stato presente, piuttosto caloroso e c’è stato anche molto passaparola. Questo ci ha fatto piacere. Abbiamo ricevuto recensioni e pareri positivi, ma ho avuto anche l’impressione che in alcuni casi la nostra performance sia stato recepita come uno spettacolo un po’ leggero, senza grossa sostanza né ricerca. Noi che sappiamo quanto lavoro c’è dietro e quanta attenzione mettiamo, anche nei contenuti, ci siamo un po’ dispiaciute. Non so se davvero il pubblico del Fringe sia così abituato ad aspettarsi un po’ di tutto. Anzi. Lì più che in altri luoghi mi è parso che il gusto – degli esperti soprattutto – fosse orientato verso un certo tipo di poetiche. Il nostro spettacolo si differenzia dalla prosa classica perché si rifa al teatro popolare, alla giullarata medievale, che reinterpretiamo in modo del tutto personale, divertendoci a utilizzare diversi linguaggi teatrali.

FLAVIA: Onestamente non so rispondere, ma ci provo annaspando. Ho percepito che il pubblico era contento, così come ho percepito dello snobismo. Non credo che la cornice del Fringe ci abbia aiutate particolarmente: abbiamo dovuto accorciare lo spettacolo, perché il nostro materiale dura intorno all’ora e trenta, e lì avevamo solo 50 minuti a disposizione. Poi, per la mise en espace, una relazione più ravvicinata col pubblico, più intima, è preferibile. Però abbiamo ricevuto buone recensioni e apprezzamenti, e soprattutto molti sono venuti grazie al passaparola, questo significa che lo spettacolo funzionava. Portiamo “Santi e balordi” in giro da più di un anno, quindi certamente c’erano anche i più affezionati che seguono il progetto. In genere è un lavoro piuttosto apprezzato perché ognuno prende quello che vuole: nel sacchetto, le caramelle hanno gusti differenti, c’è chi sceglie quelle al limone, chi quelle alla fragola. Di base il nostro obiettivo era, ed è, quello di non dire al pubblico come sentirsi, cosa che ritroviamo negli spettacoli di molti nostri coetanei. Apriamo a delle domande, a delle circostanze, ma lungi da noi dare, e darci, una risposta. Rispetto a uno spettacolo classico la differenza sta nella struttura che si rinnova spesso, a seconda dei luoghi e del pubblico che incontriamo. Non c’è “morale”, non c’è un “finale” concettuale. Rispetto agli spettacoli contemporanei, non ci interessano gli effetti, lo scandalo, la polemica, la provocazione o lo spirito di rivolta verso le vecchie forme; ci interessa parlare di ciò che ci preme, ritrovarsi attorno a un focolare e ricordarci le storie, le favole, dove si raccontano taboo rognosi e personaggi borderline, senza perdere di vista i nostri mezzi e il mercato. Sembra che la strada per un giovane teatrante, oggi, sia solo quella di distruggere la drammaturgia e la storia, di rivolgersi all’anti-narrazione, al frammento, di usare elementi multimediali, ibridi, linguaggi commisti per indicare la propria situazione socio-culturale. Ecco, noi abbiamo cercato di remare contro questi stilemi, non perché non funzionino o non ci piacciano, ma perché volevamo provare a ottenere il massimo senza usare nulla se non il potere dell’immaginazione e della resa attorale. Attraversando le storie senza evitarle. Prendendocene la responsabilità. Senza costruirci morali, provocazioni, risposte o non-risposte. Il nostro è uno spettacolo a più livelli, ognuno sceglie il suo. Molti ridono; altri, dopo la risata, riflettono. Qualcuno batte le mani, taluni sbadigliano. I più colti sentono le citazioni o apprezzano il lavoro testuale, che c’è. Ognuno raccoglie la propria caramella. Non ci si può far nulla. Ma questo lo dico anche mio malgrado, perché per me è uno spettacolo anche molto serio, ma molti dicono di noi cose lontane da quello che credo di fare. E va bene anche questo.

 

Il posto dove vi piacerebbe esibirvi in futuro.

GIULIA: Beh, un posto che non conosciamo ancora, in cui vedere cose nuove!

FLAVIA: Fuori dall’Italia.

 

Come vi vedete, diciamo, tra 5 anni?

GIULIA: Ancora teatranti, affaccendate in qualcosa che ci entusiasma. Speriamo un po’ più stabili.

FLAVIA: Non riesco a vedermi o forse non voglio ancora pensarci. Spero più radicata, e serena. Spero ancora col desiderio di non conformarmi alle leggi della comodità per essere “apposto”. Spero “scomodamente felice”, con uno spirito infantile sempre vigile.

 

Progetti per il futuro?

GIULIA: Qualcosa in cantiere c’è, ma senza fretta.

FLAVIA: Continuare con i progetti che ho adesso, e farli vivere tutti – prosa, musica, cinema, teatro in ogni sua forma. E spero di riuscire a scrivere un testo nuovo, a cui penso da un po’ ma senza messa a fuoco.

 

Grazie a Giulia e Flavia per essere state con noi. Qualcosa da aggiungere prima di salutarci?

GIULIA: Grazie a voi per averci dato questo spazio e per il vostro interesse.

FLAVIA: Grazie di averci dato uno spazio di incontro e dibattito.


 

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