Valentina Orengo è originaria di Torino, ma ha vissuto in molti altri posti – in Liguria, nelle Langhe, in Inghilterra, a Milano, a Firenze e a Roma dove, per ora, si è fermata.
Come autrice di programmi televisivi ha lavorato per diverse reti – Videomusic, Mediaset, Rai, MTV, La7 – e collaborato con giornalisti e presentatori come Fabio Fazio e Daria Bignardi.
“Più in alto del giorno“, edito da Garzanti, è il suo romanzo d’esordio, una storia di formazione con protagonista Mimì, una ragazzina di dodici anni che si racconta durante un’estate “di passaggio” che la porta dall’infanzia all’adolescenza.
Ciao Valentina, è un piacere averti con noi su Parole a Colori per parlare del tuo libro e della tua doppia esperienza come autrice. Inizierei proprio da questo: com’è stato il passaggio dal mondo della tv a quello della narrativa?
Non so se c’è stato un vero passaggio. Scrivere questo romanzo è stata per me un’avventura parallela, una sorta di rifugio al di fuori del mio lavoro quotidiano. È stata un’esperienza entusiasmante, anche perché non aveva il sapore di un lavoro.
Trovi che nei due tipi di scrittura ci siano dei punti di contatto, e soprattutto hai portato qualcosa dell’esperienza lavorativa maturata fino a oggi in questa nuova avventura professionale?
La scrittura televisiva è molto diversa: a scrivere si è in tanti, bisogna fare i conti con conduttori, registi, grafici, redattori. Nel momento in cui ci si cimenta in un romanzo si è completamente soli e molto più liberi. La tv mi ha insegnato a cercare il ritmo, a togliere il superfluo e ad accompagnare lo spettatore/lettore per mano fino alla fine del racconto.
Protagonista del libro è Mimì, una ragazzina che vive un’estate di passaggio, che la porta dall’infanzia all’adolescenza. Perché hai deciso di raccontare proprio questa storia? A cosa ti sei ispirata per la tua storia e i tuoi personaggi?
Ho sempre amato il romanzo di formazione e poi, osservando mio figlio crescere, sono rimasta incantata da quell’età di passaggio in cui si va alla conquista della propria indipendenza con uno sguardo ancora bambino. La meraviglia, lo stupore e il senso di avventura sono sempre dietro l’angolo. Ogni cosa accade per la prima volta e si è travolti da emozioni fortissime. È un privilegio che si perde crescendo. Noi adulti spesso non ricordiamo quanto sia stato esaltante.
Per l’atmosfera, che dalla spensieratezza vira poi verso un senso di angoscia e quasi di terrore, il tuo libro ricorda “Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti. Pensi che il paragone sia calzante? E avevi presente questo precedente, mentre scrivevi?
Molto spesso a strapparci dall’infanzia è proprio un trauma, un evento che ci costringe a prendere coscienza di noi stessi e del mondo che ci circonda. Ho letto “Io non ho paura” molti anni fa, è un libro straordinario e il paragone mi lusinga, ma credo che a rendere il mio romanzo simile a quello di Ammaniti sia più la struttura tipica del romanzo di formazione.
Il romanzo parla di amicizia e di cambiamenti, ma descrive anche quella sensazione di estraneità e di “scollamento” nei confronti del mondo che prima o dopo capita a molti di provare. I giovani protagonisti, infatti, sentono di essere cresciuti mentre per chi li circonda sono ancora i bambini di sempre. Quanto è importante questa componente, nell’economia del racconto? E quanto lo è per te la tematica?
È fondamentale. Il senso di smarrimento e solitudine che vengono dalla sensazione di non essere riconosciuti può essere devastante. L’adolescenza è anche un periodo estremamente delicato, all’improvviso vengono meno molte certezze, gli ormeggi si rompono e figli e genitori devono trovare nuovi modi di comunicare. La metamorfosi del bambino che diventa grande è affascinante, come lo sono altri tipi di metamorfosi che a volte si vivono anche da adulti.
“Più in alto del giorno” è uscito in libreria da pochi giorni, il 29 agosto. Cosa ti aspetti da questa prima esperienza di pubblicazione? La vedi come l’inizio di una carriera da autrice di narrativa oppure più come una parentesi?
“Più in alto del giorno” è un po’ come un figlio, adesso è il momento di lasciarlo andare e osservare da lontano come se la caverà. Mi emoziona e mi da un po’ di apprensione. Ma ora devo occuparmi del prossimo romanzo, ci sono altre storie che vorrei raccontare.