Un film di Antonio Capuano. Con Teresa Saponangelo, Francesco Di Leva, Pietro Juliano.
Drammatico, 95′. Italia 2020
Maria Serra ha un buco in testa: una zona oscura che condiziona tutta la sua vita, ferma al giorno in cui suo padre è stato ucciso. Mario Serra era un vicebrigadiere che il 14 maggio 1977 è rimasto a terra dopo essere stato colpito a morte da Guido Mandelli, attivista di Autonomia Operaia. Ora Maria vive a Torre del Greco con la madre Alba che non parla praticamente più, e sopravvive fra lavoretti precari e frequentazioni con alcuni maschi locali: un poliziotto, un insegnante, un ladruncolo di strada. Finché la sua psicologa la incoraggia ad incontrare a Milano l’assassino di suo padre, uscito di galera dopo aver scontato la sua pena. E Maria è intenzionata ad andare a quell’incontro con una pistola al fianco.
Non è semplice in linea generale avere una vita serena e felice. Lo è ancora meno se vivi nel sud Italia, ti ritrovi orfano di padre fin da neonato e tua madre si chiude in una sorta di mutismo assoluto come risposta al dolore.
“Il buco in testa” di Antonio Capuano, presentato fuori concorso al Torino Film Festival 2020, è ad oggi una delle più interessanti e piacevoli sorprese della kermesse. Ispirata a fatti realmente accaduti, è un’intensa storia di rabbiosa solitudine al femminile, magistralmente interpretata da Teresa Saponangelo.
La sua Maria è una donna indipendente, forte ma allo stesso tempo fragile, consapevole dei limiti che non avere mai conosciuto il padre (poliziotto caduto in servizio durante una manifestazione) le ha lasciato in dote. Come avere “un buco in testa“.
Il film si muove su due binari narrativi che si alternano per poi riunirsi nel finale. Nel primo lo spettatore osserva Maria nella sua vita di tutti i giorni, a Torre del Greco, mentre si relaziona con alcuni maschi locali: un poliziotto, un insegnante, un ladruncolo di strada. Il suo sogno sarebbe quello di fare l’insegnante ma per mantenersi è costretta a fare l’operatore ecologico.
Nel secondo c’è un netto stacco. Sembra essere passato del tempo, ci troviamo a Milano. Maria ha cambiato taglio di capelli e colore, da neri adesso sono rossi. La rincontriamo titubante, indecisa se presentarsi o meno a un appuntamento, che scopriamo essere con l’assassino di suo padre, rimesso in libertà dopo aver scontato la sua pena.
“Il buio in testa” è un film lineare, semplice nella sua struttura narrativa. Nonostante alcuni limiti, risulta incalzante e coinvolgente, capace di trasmettere chiari sentimenti e sensazioni allo spettatore.
Teresa Saponangelo si cala perfettamente nel personaggio di Maria dandole consistenza, umanità e soprattutto fisicità e voce per urlare un’infelicità repressa quanto devastante. L’incontro con l’assassino del padre è teso, vibrante ma anche frustante agli occhi di una figlia che non riesce a comprendere come gli ideali di giustizia sociale le abbiano tolto il padre.
La scelta di evitare un – comodo – finale salvifico o assolutorio, optando invece per un’amara quanto consapevole accettazione da parte di Maria è coerente con quanto visto fino a quel momento. E alla fine vorremmo solo essere lì con lei, per poterla abbracciare.