Un film di Bryan Singer. Con Rami Malek, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello, Aidan Gillen. Biopic, 134′. Gran Bretagna, USA 2018
Da qualche parte nelle suburb londinesi, Freddie Mercury è ancora Farrokh Bulsara e vive con i genitori in attesa che il suo destino diventi eccezionale. Perché Farrokh lo sa che è fatto per la gloria. Contrastato dal padre, che lo vorrebbe allineato alla tradizione e alle origini parsi, vive soprattutto per la musica che scrive nelle pause lavorative. Dopo aver convinto Brian May (chitarrista) e Roger Taylor (batterista) a ingaggiarlo con la sua verve e la sua capacità vocale, l’avventura comincia. Insieme a John Deacon (bassista) diventano i Queen e infilano la gloria malgrado (e per) le intemperanze e le erranze del loro leader: l’ultimo dio del rock and roll.
Raccontando la storia dei Queen dal 1970 al 1985, “Bohemian Rhapsody” è un’opera che si concentra sulla cometa del rock, il leggendario frontman del gruppo, Freddie Mercury, che ha unito intere generazioni con la straordinaria potenza della sua voce.
Solitamente, nel cinema, due sono le strade che i biopic possono intraprendere: essere prodotti di tendenza, adatti soprattutto a Hollywood, che sacrificano qualcosa in termini di aderenza ai fatti per risultare piacevoli al grande pubblico oppure film biografici a tutti gli effetti, dove ciò che conta è raccontare con precisione ciò che è successo.
Nel caso del film di Bryan Singer (portato a termine da Dexter Fletcher) si nota subito che è stata tentata la prima strada, con una certa approssimazione nel racconto, soprattutto di alcuni periodi. Certo coprire 15 anni così intensi e ricchi di avvenimenti non era sempice, ma la pellicola è spesso carente di dettagli.
Non mancano, ovviamente, i momenti clou: la registrazione della prima demo, i concerti, l’abbandono e poi il ritorno di Freddie Mercury. Ma tutto avviene così velocemente che non si riesce a coglierne il significato e l’importanza. Li vediamo accadere, ma non sentiamo emotivamente il loro impatto.
Freddie Mercury morì di polmonite mentre combatteva l’AIDS nel 1991. La malattia infettiva gli venne diagnosticata solo nel 1987, ma “Bohemian Rhapsody” anticipa la diagnosi al 1985, prima della performance ai Live Aid che è entrata nella leggenda.
Per quanto riguarda invece Mary Austin (Boynton), la donna che Mercury considerò tutta la vita come sua moglie, il film drammatizza quello che successe tra i due, utilizzando la donna per affrontare la sessualità dell’artista. Il loro rapporto fa emergere il lato più vulnerabile di Mercury, tra ricerca della propria identità e ambizione.
Il film prende vita ogni volta che i Queen salgono sul palco, grazie alla messa in scena dinamica e alle performance che coinvolgono tutti e quattro i componenti della band (che hanno studiato duramente per raggiungere affiatamento e credibilità da musicisti).
Se c’è qualcuno che dal film esce vincitore è sicuramente Rami Malek. L’atteggiamento, la voce, il linguaggio del corpo e del viso sono davvero perfetti. Nota di merito anche per Gwilym Lee, nel ruolo di Brian May, e Ben Hardy, in quello di Roger Taylor.
“Bohemian Rhapsody” si sforza di intercettare i gusti di un pubblico ampio, risultando piuttosto morbido nei confronti di Freddie Mercury e delle sue scelte di vita e critico solo quando si tratta delle case discograficha. A salvarsi è sicuramente la musica.