“Alice in Borderland”: una serie nipponica con del potenziale

Dal manga omonimo, un survival game senza esclusioni di colpi in una Tokyo parallela

© Haro Aso,Shogakukan / ROBOT

Una serie diretta da Shinsuke Satō. Con Kento Yamazaki, Tao Tsuchiya, Yûki Morinaga, Tsuyoshi Abe,
Shô Aoyagi. Fantascienza. Giappone. 2020-in produzione

 

Il mio 2020 televisivo si avvia alla conclusione, e sto sempre di più mettendo in discussione le certezze che credevo di avere. Dopo aver dato promosso “Paranormal” (qui la recensione), la prima serie egiziana su Netflix, devo riconoscere che anche l’Estremo Oriente è capace di stupire e realizzare prodotti diversi da quelli classici “da festival” a cui mi sono abituato…

La serie giapponese “Alice in Bordeland”, disponibile su Netflix, ruota intorno a un genio dei videogame imprigionato in una realtà dove, chi gioca, muore veramente.

Chiariamo le cose: non si tratta di un capolavoro assoluto, e probabilmente non vi farà strappare i capelli per l’innovazione. Negli otto episodi che compongono la prima stagione non mancano criticità strutturali, e alcuni passaggi narrativi sono piuttosto lenti e inutili rispetto al plot di partenza.

Il protagonista è Ryohei Arisu (in giapponese “Alice”, all’inglese, si traslittera “Arisu”), un ventenne disoccupato che ha abbandonato l’università e trascorre le giornate tra i videogiochi, sferzato dal biasimo paterno per la sua inettitudine.

Arisu è dotato di intuizioni logiche superiori alla media, un talento che costituirà l’unica chance di sopravvivenza per lui e per i suoi migliori amici – il timido, sottomesso e religioso Chota e l’aggressivo Karube – quando si ritroveranno inspiegabilmente catapultati da un bagno pubblico della stazione di Shibuya in una Tokyo deserta, dove si combatte a rischio della vita…

“Alice in Borderland” segue il trio mentre affronta prove (game) sempre più articolate e pericolose. A ogni livello corrisponde una carta da gioco che ne identifica tipologia e difficoltà. I game non sono solo giochi mortali ma anche una forma di “coming age” psicologico a cui ogni concorrente è sottoposto.

La prima stagione è divisa in due parti: la prima ricorda un “survival game”; la seconda è ambientata nella comunità della “Spiaggia”, dove conosciamo un’altra prospettiva su questa Tokyo alternativa.

© Haro Aso,Shogakukan / ROBOT

Questa comunità di giocatori con le sue dinamiche sociali ed evoluzioni caratteriali da una parte ricorda quelle dei sopravvissuti delle serie “The Walking Dead” e “Lost”, dall’altra strizza l’occhio al “Signore delle mosche”.

La cornice narrativa, ambientale e sociale è modulata sulla cultura nipponica, che fa della collettività e del sacrificio del singolo per il benessere del gruppo il proprio punto di forza.

I personaggi si rifanno a stereotipi popolari nei manga: la teenager tosta, la tipa scaltra che ottiene protezione in cambio di favori sessuali, il genio sociopatico dal sorrisetto diabolico, il gangster duro fuori e tenero dentro, il leader carismatico e folle che irretisce i più deboli, il disadattato sociale che trova la sua ragione di vivere in un mondo violento e folle.

Paradossalmente i personaggi più riusciti e convincenti li troviamo nella seconda parte, tra quelli cosiddetti minori – penso allo spietato killer con la spada oppure alla giovane cameriera esperta di arti marziali.

© Haro Aso,Shogakukan / ROBOT

Perché gli abitanti di Tokyo sono scomparsi? Chi decide i “game”? Chi sono gli organizzatori? Tante domande affollano la mente dello spettatore che si sforza di individuare una coerenza narrativo in uno script che, spesso e volentieri, tende invece a perdersi in sotto-trame o riflessioni sui massimi sistemi senza arrivare al punto.

Eppure “Alice in Bordeland” è un continuo rilancio, e lo spettatore va avanti pensando che, al prossimo step, si farà maggiore chiarezza e alcune domande avranno finalmente risposta.

Nel complesso la visione è intrigante, ma segnata da un’altalena narrativa e soprattutto emozionale e da un ritmo discontinuo che rendono difficile entrare del tutto in sintonia con i personaggi e venire trascinati dentro la storia. Luci e ombre, per una serie che comunque definirei sufficiente.

Il finale di stagione è, ovviamente, aperto e getta le basi per un secondo giro di “game”, che ci auguriamo siano sì ancora più vibranti e sconvolgenti ma anche inseriti in una struttura più equilibrata e coerente, meno contaminata e più originale. Così “Alice in Borderland” ha buone possibilità di diventare un successo.