Un film di Ronnie Sandahl. Con Erik Enge, Alfred Enoch, Frida Gustavsson, Maurizio Lombardi, Lino Musella. Drammatico, 116′. Svezia, Italia, Danimarca 2021
Martin Bengtsson è un giovane calciatore svedese che all’età di 16 anni viene acquistato dall’Inter per farlo giocare nella squadra Primavera. È il sogno che aveva dall’età di tre anni quando con suo padre, che ora si è fatto una nuova famiglia, vedeva le partite del campionato italiano. Ma la vita con i compagni di squadra e lo spaesamento causato dal non conoscere una parola di italiano lo fanno progressivamente entrare in una depressione da cui fatica a trovare una via d’uscita.
I giovani di oggi vogliono spesso bruciare le tappe, aspirando a ricchezza, fama e popolarità. Lo studio, il sacrificio non sono più considerati necessari per raggiungere “il successo”, quando si ha dalla propria parte un certo talento.
Tanti ragazzi si gettano nella mischia convinti di potercela fare, ma poi, alla prova dei fatti, solamente in pochi, pochissimi raggiungono l’obiettivo. Perché la selezione naturale di darwiniana memoria è perfettamente applicabile anche al campo sportivo e artistico. E non basta avere le doti fisiche, per arrivare, serve anche una grande forza mentale per reggere alle pressioni.
Pur non conoscendo la storia del calciatore Martin Bengtsson, enfant prodige svedese acquistato dall’Inter all’età di 16 anni per la sua Primavera, la ricostruzione emotiva, psicologica e cronologica della sua implosione firmata dal regista Ronnie Sandahl in “Tigers” mi ha decisamente colpito.
Il racconto è semplice e lineare sul piano narrativo, ma sentito, intenso e soprattutto destabilizzante su quello emozionale.
Martin è cresciuto senza padre e con una madre apprensiva. Ha investito tutto le proprie energie nel calcio. Quando viene ingaggiato dall’Inter pensa di toccare il cielo con un dito. Un errore di valutazione che rischia di costargli la vita.
“Tigers” ci mostra come il raggiungimento di un obiettivo lungamente desiderato non porti automaticamente serenità e gioia, ma semmai l’opposto. Perché i traumi non si legano solo ad eventi negativi, e la letteratura medica dimostra come la gestione delle aspettative e dell’improvvisa popolarità, ad esempio, possano scatenare in una mente anche gravi problemi psichici.
Il crollo psicofisico di Martin inizia proprio quando esordisce in prima squadra. Il ragazzo si trova a vivere una realtà completamente diversa da quella a chi è abituato, soffre la competizione e l’invidia dei colleghi, fatica a inserirsi anche a causa della lingua.
Erik Enge è davvero bravo e credibile, dando vita a quella che ci sembra una via di mezzo tra un marziano e un ingenuo adolescente svedese. Ma è proprio questo a rendere memorabile e incisiva la sua performance, prima spiazzando e poi arrivando al cuore dello spettatore.
Perché “Tigers”, vi chiederete a questo punto? Il senso del titolo emerge da un dialogo tra il protagonista e la ballerina Vibeke. Lei spiega perché è rimasta affascinata dalla storia della tigre di un zoo, che dopo tanti anni in cattività ha aggredito un custode. “Una tigre rimane sempre una tigre. La puoi tenere prigioniera per anni, ma l’istinto di libertà rimarrà sempre dentro di lei”.
Martin è come la tigre dello zoo, costretto a recitare un ruolo e perseguire un sogno che non sente più suo. Martin arriva al punto di rottura ma alla fine trova anche il coraggio di guardarsi dentro e capire cos’è meglio per lui. Perché nessun successo vale la propria salute mentale. O no?