“The handmaid’s tale”: il potere della parola scritta e il ruolo del futuro

Nelle 13 puntate che compongono la seconda stagione della serie tv continua il viaggio nella distopia

Una serie ideata da Bruce Miller. Con Elisabeth Moss, Joseph Fiennes, Yvonne Strahovski,  Alexis Bledel. Drammatico, fantascienza. 2017-in produzione

 

Densa. Il primo aggettivo, forse il più importante, per descrivere la serie “The Handmaid’s Tale” ideata da Bruce Miller, arrivata alla seconda stagione, esprime benissimo quanto questa possa essere ricca di significati ed elementi, che la consacrano come uno dei progetti più interessanti del panorama televisivo contemporaneo.

Ispirata al romanzo “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood (1985), la serie insiste anche ripetendosi, su alcune tematiche cardine (la crisi demografica, i diritti delle minoranze, il ruolo della donna nella società e la maternità surrogato), che danno il là a un racconto non perfetto ma corposo.

Interessante come la società distopica dove si inserisce la storia sia in netto contrasto con quella rappresentata da altri film (Downsizing, Seven Sisters), super-tecnologica e liberista, ma si configuri come un assolutismo.

Entrando nell’analisi della seconda stagione, trasmessa anche in Italia tra aprile e luglio, ci eravamo lasciati con la nostra protagonista, Difred (Moss), in attesa di una punizione terribile. E proprio in questo punto ci riporta il piano medio che da il là alle nuove 13 puntate.

Tanti i temi trattati e le sotto-trame sviluppate. A cominciare dall’importanza della parola scritta, della lettura, che non per niente nel regime di Gilead è vietata a tutte le donne, indipendentemente dalla loro condizione e classe sociale. In questo modo le donne vengono tenute in una vantaggiosa (per gli uomini) condizione di ignoranza e debolezza. Anche le “figlie” delle mogli dei comandanti, costrette ad avere un’istruzione incompleta.

Non è facile, però, sovvertire le regole, in questo universo distopico. Non è facile cambiare il proprio ruolo – che viene esemplificato dagli abiti che si indossano, che sono in questo caso simbolo di dannazione e strumento di prigionia.

Per sovvertire il mondo in cui si vive, per riscrivere il proprio futuro, l’unico modo è rischiare tutto, anche se stessi. Sacrificare il singolo per il bene della collettività. Come fa Difred/June nel finale, aprendo le porte a quello che vedremo nella terza stagione.