CRONACHISTICO. SCIAPO. LINEARE
Di libri sui Borgia oggi – vista anche la fortuna che la celebre famiglia spagnola ha riscosso e sta riscuotendo in TV – ce ne sono tanti. Il genere, indubbiamente, attira il pubblico, quindi il successo per lo scrittore che si imbarca nell’impresa è dietro l’angolo.
Penso, però, che per imporsi sugli altri, uno specifico romanzo debba avere qualcosa di particolare, qualcosa di unico… Ecco, il libro di Sarah Dunant “Sangue e onore” non ha nessuna delle due cose!
La storia è ben scritta e si capisce che dietro c’è un lavoro di documentazione importante, però si riduce tutto a questo. I personaggi non sono indimenticabili, il racconto somiglia più a una cronaca che a un romanzo. Non si percepisce nessuna emozione, quando si legge.
È un libro molto piano, molto lineare. Non ci sono veri picchi di tensione o di pathos (no, neppure quando muoiono Juan o il secondo marito di Lucrezia). Le pagine scorrono tutte, più o meno, uguali. È un viaggio lungo, che non riserva però emozioni.
Dal momento che la storia è più o meno nota, per rendere un romanzo avvincente servono o uno stile particolarmente incisivo (e quello della Dunant non lo è), oppure la scelta di un punto di vista o di un taglio narrativo unici (e qui non ce n’è proprio traccia).
La fine delle pagine non corrisponde con la fine delle vicende dei personaggi… eppure non si prova il desiderio di iniziare subito il secondo capitolo della saga (“Danzando con la fortuna. I Borgia“, ndr) – e questo penso sia il sintomo più evidente di un libro che non decolla mai, che non prende.
I ritratti dei personaggi sono molto accurati eppure, anche da questo punto di vista, è come se mancasse qualcosa. Dopo oltre 500 pagine di “frequentazione” non si prova affetto o attaccamento per i protagonisti, non si ha la sensazione di conoscerli e, bene o male, dei successi e dei drammi che li hanno funestati e che ancora li attendono dietro l’angolo non ci importa quasi nulla.
Lucrezia, Cesare, Papa Alessandro restano distanti da chi legge, restano sempre e comunque personaggi scritti. Non riescono proprio a prendere vita.
Per non parlare di Giulia Farnese, uno dei personaggi più maltrattati dal romanzo – o forse sono state le serie televisive a darle troppo peso/spazio e chi legge si è ormai fatto l’idea, forse sbagliata, che “la Bella” abbia più importanza di quella che ha avuto storicamente?
L’amante del Papa qui è davvero una bambina, non parla quasi mai, non ha una personalità propria. È solo un bel soprammobile, pronta a piegarsi ai desideri di quello che potrebbe essere suo nonno e sempre impegnata a farsi pettinare gli straordinari capelli.
Se la Dunant ha un merito è quello di aver reso evidente – più di quanto avviene gioco forza sul piccolo schermo – il paradosso di questa relazione, il contrasto tra età e ruolo di lui ed età e ruolo di lei. Alessandro VI nel libro passa per un vecchio bizzoso e vizioso, ma Giulia non sembra una maliarda pronta a sfruttare la situazione, Giulia sembra solo una ragazzina.
Un discorso a sé lo meritano Cesare e Lucrezio, una delle coppie di fratelli più famose della storia, non tanto perché questo romanzo offra chissà quali spunti, ma solo per una sorta di equilibrio della recensione.
Teoricamente – anche per via dell’influsso delle sopracitate serie – Cesare è un personaggio che mi piace. L’immagine che ci rimanda il libro, però, non è particolarmente positiva (e va be’, ci potremmo passare sopra), ma nemmeno particolarmente simpatica.
Del figlio maggiore del Papa (ma non era il secondogenito?) vengono descritti soprattutto i difetti, il desiderio di primeggiare e l’insensibilità assoluta seguendo la quale passa sopra a tutto e tutti pur di raggiungere i propri scopi. Anche i malvagi possono attrarre e portare il lettore a fare il tipo per loro, ma in questo caso la magia non si verifica.
Cesare è crudele, insensibile, perverso per certi versi. Anche quello che prova per la sorella non riesce a passare per una cosa positiva. Cesare sembra solo possessivo e desideroso di usare Lucrezia per i propri fini politici. Della felicità di lei, qui come non mai, non sembra importargli proprio niente.
Lucrezia, al contrario, sembra un po’ troppo buona, candida e serafica. Avremmo senza dubbio preferito una donna più forte e combattiva, invece di questa educanda da convento, che non si fa mai sentire.
È vero che la fine del libro ci lascia con una Lucrezia 19enne – una bambina, quindi, almeno sulla carta e per i nostri standard moderni – e che quindi il futuro (e il secondo romanzo) potranno forse riservare delle sorprese, però insomma. Se Cesare ha troppi difetti, Lucrezia sembra non avere nessuno! Lui non piace per un verso, lei non piace per un altro.
Il rapporto tra loro, per finire, per chi legge è del tutto sterile e anche abbastanza scontato. Non ci sono brividi, neppure quando i fratelli si avvicinano al confine proibito, neppure quando camminano sul filo del rasoio.
Per ciò che riguarda lo stile, a ripensarci a posteriori, forse uno dei problemi maggiori del libro è che i personaggi parlano troppo poco tra loro. C’è una vera e propria penuria di interazioni interpersonali, in questo romanzo, mentre il monologo interiore e il racconto dei fatti predominano. Forse se, invece di pontificare, Lucrezia e Cesare comunicassero di più, così come il Papa e Giulia, e via dicendo, per il lettore sarebbe più facile immedesimarsi e affezionarsi.
Passando alla storia, invece, vorrei farmi spiegare dalla Dunant perché, in un romanzo che si suppone essere storico e dove c’è un’attenzione profonda ai dettagli, all’epoca, ai costumi, l’autrice abbia invertito le date di nascita dei figli del Papa. Cesare, almeno secondo tutti i siti/documenti che ho consultato io, è il secondogenito di Rodrigo Borgia e Vannozza Cattanei – e questo spiega anche perché lui fosse stato destinato alla vita ecclesiastica e il fratello, maggiore, Giovanni/Juan a una carriera militare e politica.
Perché mai cambiare questo fatto? Che senso avrebbe, se Cesare fosse il primogenito, averlo destinato alla Chiesa? Notoriamente erano i figli cadetti a dover cercare fortuna in campo spirituale, per non pesare sulle fortune – anche economiche – dal maggiore, destinato a perpetrare la famiglia. Scelta incomprensibile, insomma.