Per una donna i trent’anni sono un’età meravigliosa, si comincia a fare sul serio e ad assaporare il bello della vita. Peccato che non sia quasi mai veramente così. Hervör, Karen, Silja e Mía, ad esempio, sono tutte alle prese con situazioni sentimentali caotiche e insoddisfacenti. C’è quella che si accontenta di saltuarie notti di sesso con l’ex professore di università, chi vive dai nonni, trascorrendo i weekend in discoteca e svegliandosi ogni volta in un letto diverso. Oppure quella che, essendo medico, è spesso costretta a turni fuori casa e, guarda un po’, la volta che rientra senza avvisare sorprende il neo marito con una biondina. E poi c’è la più scombinata di tutte: è stata lasciata dal fidanzato, un avvocato benestante, e ora vive in una mansarda in mezzo agli scatoloni del trasloco, faticando a trovare un lavoro e una direzione nella vita. Le quattro giovani donne non si conoscono né sembrano avere molti punti in comune. A unirle è la pausa obbligata al Reykjavík Café dove, nel buio gennaio islandese, vanno a cercare un po’ di calore e dove le loro storie finiranno per intrecciarsi. Finché, fra un latte macchiato e un cocktail di troppo, rovesci del destino e risate condite da improbabili consigli, ognuna troverà il modo di raggiungere la propria felicità, o qualcosa di molto vicino.
Da lettrice, di questo libro mi hanno infastidita due cose. La prima – sintomo, a mio parere, di una certa mancanza di fantasia e trascuratezza nella cura nei dettagli da parte dell’autrice – è la tendenza ad attribuire a tutte e 4 le protagoniste di questa storia gli stessi identici gesti. Possibile che quattro donne di età diverse e con vite diverse abbiano i capelli lunghi, e si facciano sempre la crocchia quando vogliono stare comode? Per il lettore è già complicato districarsi tra le quattro storie – che in sé per sé non sono poi così diverse – senza dare i numeri. Una maggiore personalizzazione delle quattro signore non avrebbe guastato.
La seconda, è questa tendenza a far bere tutti, sempre e comunque. Io personalmente da qualche anno sono diventata del tutto astemia – e va be’ – ma non è che prima non uscissi mai di casa senza essermi fatta un bicchierino. Queste donne islandesi, invece, sembra che siano incapaci di fare un passo, se prima non si sono ben bene imbottite di superalcolici (possibilmente gin). Alla lunga anche questo fatto risulta ripetitivo, stancante. E si riallaccia al discorso che facevo sopra, sulla variabilità che latita.
Da donna, invece, è l’atteggiamento delle protagoniste (o almeno delle due che vengono toccate più da vicino dal problema, Mia e Silja) nei confronti dei tradimenti che mi ha fatta quasi infuriare. Essere tradite è tremendo, scoprire che il proprio compagno/fidanzato/marito va a letto con un’altra (o essere lasciata, per un’altra) è un’esperienza difficile da affrontare. Però nel fatto che queste donne siano tanto brave a puntare il dito contro l’altra, contro l’amante, e non così tanto contro l’uomo io vedo sempre il solito femminismo al contrario.
Le donne si sono emancipate, hanno lottato per avere pari diritti, per il voto e tutto il resto, ma poi alla resa dei conti, quando si parla di rapporti interpersonali, sono ancora del tutto incapaci di “fare squadra” con persone del loro stesso genere o quanto meno di essere un po’ obiettive. È molto più facile incolpare la troia di turno – una ragazza che, magari, e dico magari, nemmeno sapeva che l’uomo che l’ha avvicinata in un locale aveva una moglie, visto che lui ha visto bene di togliersi la fede, prima di provarci – che fare i conti con il porco che si è sposato.
Ragazze c’è poco da fare, è uno dei cari e vecchi dati di fatto. E così, in questo romanzo che potrebbe essere un inno alla femminilità ritrovata, al coraggio delle donne e alla loro forza di andare avanti nonostante tutto, si finisce spesso per assistere a siparietti e dialoghi svilenti. Almeno per una donna.
Immagino che lo avrete capito, leggendo nemmeno tanto tra le righe, a me le quattro protagoniste hanno fatto soprattutto una profonda tristezza. Perché vivono situazioni stereotipate, hanno a che fare con uomini del cavalo (stereotipati anche loro), ma soprattutto hanno reazioni che di positivo e originale hanno pochissimo. Magari questa è la realtà, questo è il modo con cui le donne, oggi, affrontano i loro problemi sentimentali – e quindi, in un certo senso, il romanzo di Sólveig Jónsdóttir è un successone, perché è capace di raccontare uno spaccato del nostro mondo.
Però… Però da un libro ti aspetti dell’altro. Però in un libro dopo un po’ di stanchi di protagoniste sempre depresse, che non sono capaci di vedere non dico il bicchiere mezzo pieno, ma almeno non del tutto vuoto. Soprattutto, ti stanchi della loro convinzione di avere sempre e comunque ragione, su tutto. E di essere nere e pessimiste come il cielo d’Islanda.