di Luciaconcetta Vincelli
Nel nuovo film documentario “Fuocoammare”, il regista di “Sacro GRA” Gianfranco Rosi porta in scena un’audace e realistica parafrasi di un celebre verso leopardiano, “il naufragar m’è dolce in questo mar”, che si fa triste allegoria dell’atmosfera di morte che aleggia sull’isola di Lampedusa e della “romantica” rassegnazione del mondo di fronte all’attualità.
La pellicola, già premiata con l’Orso d’oro al 66° festival di Berlino, è stata di recente scelta per rappresentata l’Italia nella corsa agli Oscar 2017.
Il dramma dei migranti viene introdotto con fatti e cifre: l’annuncio della morte di 15.000 persone sulle coste siciliane sottolinea, sin da subito, una precisa scelta estetica improntata a un asciutto pragmatismo.
Con fotogrammi precisi, la regia, inaspettatamente non coinvolta, archivia tutto, soprattutto ciò che rischia di cadere nell’oblio, con piglio quasi giornalistico. Così scorrono davanti agli occhi immagini di uomini appena spirati, ancora palpitanti per lo sforzo di uscire dalla stiva dell’imbarcazione, alla luce, eppure senza più respiro né forma, stretti in una morsa illusoria, proiettati su uno schermo eccessivamente piatto per racchiudere tale profonda crudeltà.
E noi? Noi non possiamo far altro che identificarci con i personaggi, gli altri, con la solidarietà ipocrita, con l’intervento fermo, impotente o tardivo.
L’apparente distacco tra scena e storie tenta, alle volte, di scomparire in una narrazione cadenzata che abilmente mescola regia, fotografia e sonoro, non a caso curati dallo stesso Rosi, e che fluisce in un’ambientazione costantemente nuvolosa, illuminata dalle rocce candide dell’isola.
Eppure gli episodi continuano a essere silenziosi nella loro indipendenza. È la metafora cinematografica della mancanza di comunicazione tra la realtà dei migranti di Lampedusa e il resto degli uomini.
Tale tema-rimprovero è ribadito attraverso elementi minimi: l’occhio pigro che il piccolo Samuele, simbolo della moderna società ancora in maturazione davanti ai recenti avvenimenti, deve curare; l’ammonimento dell’incipit, dove una voce del servizio di guardia costiera, tranquilla, parla a una voce che supplica, normalizzata dall’artificiosità del telefono; il contrasto tra lingue – il siciliano, l’inglese, i dialetti variopinti dell’Africa, per arrivare ai fischiettii e ai rumori dei giochi infantili che riproducono la guerra.
E in effetti la guerra funge da sfondo illustrativo del film, pur restando un semplice richiamo implicito. “Era tempo di guerra, pareva ci fosse fuoco a mare”: un’anziana, intenta alla routine domestica, rievoca i bombardamenti paragonandoli ai temporali, tutti e due ostacoli per il pescatore, costretto a non uscire con la barca.
Il titolo ossimorico del documentario, Fuocoammare, diviene, dunque, una descrizione che si adatta alla cronaca, ma, allo stesso tempo, che delinea comportamenti e storie differenti scaturite dal confronto con il mare.
I pescatori siciliani si auspicano di tornarci, per lavorare, e si riscoprono incapaci di vivere sulla terra ferma, come l’Ulisse della poesia di Umberto Saba. Al contrario i migranti, come l’Ulisse di Omero, lo fuggono, le teste che si sporgono curiose e impazienti verso l’approdo.
Le storie costruite attorno al mare si riuniscono nella quotidianità rassegnata davanti alle frequenti notizie di morte, congedate con l’intercalare “poveri cristiani!”, nelle dediche inerti alla radio affinché la musica sostituisca tutto il resto, oppure in gesti più attivi.
È il caso dei salvataggi, in cui si cerca di conservare l’umanità e la dignità, ma non sempre si riesce a farlo. Non ci si può abituare alla morte e all’oltraggio, però, secondo il medico Pietro Bartolo, che afferma: “È dovere di ogni uomo aiutare queste persone”. E così attraverso i salvataggi si sviluppa un punto di contatto tra gli uomini.
Grazie soprattutto al montaggio di Jacopo Quadri, che impila frammenti di storia in un raro quanto debole equilibrio narrativo, le scene si stringono in un legame di significato, sancito dal passaggio salvifico degli immigrati dal barcone alla nave italiana, mediato dalle mani degli operatori.
In quei momenti i personaggi, fino ad allora rigidi nella loro individualità, si aprono a parallelismi e comunanze: i pescatori e i migranti si ritrovano a narrare (come nella scena memorabile del canto disperato ma fiero dei profughi) la loro vicenda sofferta, fatta di sacrifici e rischi.
“Era una vita brutta, Samuè, una vita brutta”, racconta il padre pescatore al bambino in una scena che rievoca, per il gioco di specchi e le espressioni sui volti, “Ritratto dei coniugi Arnolfini” del pittore fiammingo Jan Van Eyck.
I bambini siciliani, poi, che sperimentano la vita anche nei suoi aspetti più crudi (come quando bombardano i cactus intagliati a forma d’uomo e ne curano le ferite) trasmettono lo stesso messaggio delle donne africane in procinto di partorire: la speranza riposta nei futuri cittadini del mondo, più consapevoli e responsabili dei loro predecessori e che convivano con umanità.
Senza ricorrere a finali scontati o commoventi, Rosi sceglie una conclusione riflessiva, che conduce a una soluzione simbolica: un albero, più precisamente un pino, che include l’intera umanità, senza distinzioni, in un progetto che sa di destino e di responsabilità umana.