Io sono una sposa con la valigia – e gli scatoloni. A Frances, la protagonista del romanzo “Otto mesi a Ghazzah Street” di Hilary Mantel edito da Fazi, mi accomuna infatti il fatto di aver cambiato casa, città e Paese diverse volte negli ultimi cinque anni, per seguire la carriera di mio marito.

Questo per dire che certe sensazioni ed esperienze descritte dalla donna – come il ritrovarsi a dover pulire una casa non tua, che in passato è stata di qualcun altro e che quindi avverti come estranea, gli oggetti che ti seguono dalle sistemazioni passate, la necessità di adattarsi e stringere legami con i vicini, dove possibile – mi sono risultate stranamente familiari.

Chi non ha fatto almeno un paio di traslochi in città diverse nella vita non può capire di cosa si parla, è un fatto. S’impara molto, vivendo all’estero. Non solo sugli altri, ma anche su noi stessi. E si impara ad adattarsi, a viaggiare sempre un po’ più leggeri, ad affrontare i problemi con uno spirito più pratico e pragmatico di quello degli altri.

Il viaggio finisce e comincia il trantran quotidiano, e le vecchie abitudini che pensavi di esserti lasciata alle spalle in un paese ti raggiungono in quello dopo, e tornano a galla i vecchi problemi, ma con un po’ di fortuna chiudi nel bagaglio anche i mezzi per risolverli e per accogliere le tue vecchie abitudini, oltre a una mente aperta, un po’ di discrezione e di buon senso: disponendo di questi trumenti riuscirai a cavartela ovunque.

Detto questo, “Otto mesi a Ghazzah Street” insegna prima di tutto a mettere la propria vita in prospettiva, perché per quanto adattarsi a una realtà nuova sia sempre complicato, ci sono Paesi in cui lo è molto, ma molto di più.

Siamo nel 1984. Frances, che di mestiere fa – o meglio, faceva – la cartografa, segue il marito Andrew, che si occupa di costruzione di edifici, in Arabia Saudita, precisamente nella città di Gedda.

La coppia non è nuova alle sistemazioni esotiche, avendo vissuto per anni in Africa, eppure questo nuovo cambiamento li spingerà al limite, a confrontarsi con situazioni, personaggi e problematiche inaspettate.

Adattarsi alla vita al Capolinea – come Frances rinomina il palazzo in Ghazzah Street dove si trova il loro appartamento – è complicato, adattarsi alla situazione generale della città e del Paese pure.

Da occidentali abbiamo una certa idea del mondo arabo, costruita attraverso le notizie che arrivano dai tg e giornali, i siti internet e via dicendo. Con un pizzico di supponenza, pensiamo di sapere tutto e aver capito tutto. Ebbene, come la protagonista imparerà a suo spese, tu credi di conoscere le cose ma è solo vivendole in prima persona che ti rendi conto di cosa significhino davvero. Di come sono.

Frances è convinta di avere una mente aperta, eppure confrontarsi con le donne e gli uomini del posto, con la loro fede, i loro costumi, le loro idee, la mette in crisi.

È per rispetto di sé che si coprono la faccia e il corpo ed è per rispetto nei loro confronti che gli uomini non le guardano. A tutta prima sembra plausibile, ma mi irrita comunque. C’è qualcosa che non va. So cos’è. Non ci credo, punto.

Leggendo le sue vicende, i suoi pensieri, non si può fare a meno di immedesimarsi in lei, e di condividere il suo punto di vista. Dipende tutto dal luogo dove siamo nati, certo. Noi diamo la parità dei sessi come dato di fatto, la libertà come diritto inalienabile. Eppure non è così in tutto il mondo – e non è sempre stato così neppure in Italia.

Da donna occidentale di oggi è impossibile non infuriarsi perché gli uomini in Arabia Saudita non ti guardano negli occhi, e se parli non ti considerano, come se tu fossi trasparente. È impossibile non restare sgomenti davanti alla corruzione della polizia, dei politici, di chiunque, davanti alle difficoltà per avere notizie di un amico scomparso, ai controlli arbitrari, ai posti di blocco.

I mesi che Frances descrive nel suo diario, nel suo racconto, ci appaiono lunghissimi, interminabili quasi. I giorni passano lenti, tra la polvere delle strade e l’aria arroventata, il muro che circonda la palazzina, la routine sempre uguale a se stessa.

Il bello di questo libro è che per quanto sembri molto statico, con poche ambientazioni che si ripetono (soprattutto appartamenti e case) e tante scene che si tengono in spazi chiusi, in interni, è ricchissimo di emozioni e sottigliezze. Ci si sposta poco, ma si vive molto, in “Otto mesi a Ghazzah Street“.

E alla fine si chiude il libro stanchi, anche fisicamente, come dopo un lunghissimo viaggio. E si resta sospesi, pensando al Medio Oriente di trent’anni fa e a quello di oggi, che per certi versi si starà anche modernizzando – è notizia recente che proprio in Arabia Saudita alle donne sia stato finalmente permesso di guidare – eppure risulta ancora lontano, distante, incomprensibile.