In gara per il premio miglior novità al BFI London Film Festival, “The Cakemaker” è un film che parla dell’intricato tema dell’identità, usando un linguaggio semplice e di grande impatto: quello del cibo.
Negli ultimi anni molte pellicole hanno usato la cucina come tramite per veicolare messaggi molto profondi (pensiamo a “Lezioni di cioccolato”, “Chocolat”, “Il gusto del successo”). Cosa distingue, allora, “The Cakemaker” da tutti gli altri? Per rispondere a queste domande, noi di Parole a colori abbiamo incontrato la mente e la telecamere dietro al film, il regista esordiente – ma non per questo alle prime armi – Ofir Raul Graizer.
Sono le quattro di pomeriggio di una giornata uggiosa come tante. A due passi da Green Park, a metà strada tra Buckingham Palace e Leicester Square, apro le porte – o meglio, mi aprono le porte due gentiluomini della concierge – del May Fair Hotel, e mi avvio alla sala dove oggi noi giornalisti ci incontriamo per l’ambitissimo afternoon tea con i registi.
Incontro Ofir Raul Graizer in un’atmosfera a metà tra l’informale e il formale, tè in una mano e torta al cioccolato sul tavolo. Il regista è una persona umile, molto interessante, che ama l’Italia e la cucina.
Innanzitutto, complimenti per essere qui, al London Film Festival. Le ci sono voluti otto anni e molti sacrifici per realizzare il suo film. Come si sente ad essere, adesso, in gara tra le novità?
Mi sento molto gratificato, tutto l’opposto di quando stavo girando il film. In quel periodo era tutto una difficoltà e una lotta dopo l’altra, ma adesso il film sta prendendo il volo, ricevendo molti commenti positivi, che mostrano grande rispetto per il lavoro svolto. Sono felice per me, sono felice per il mio team, sono felice per chiunque abbia partecipato alla realizzazione di “The Cakemaker”.
Da dove nasce l’idea del pasticcere (cakemaker, ndr)? Perché proprio un pasticcere?
Personalmente, amo molto cucinare e fare dolci. Penso che attraverso la cucina e la pasticceria in particolare possiamo raccontare storie da un punto di vista più emotivo. Attraverso la pasticceria, possiamo raccontare molte emozioni e sentimenti.
In molte interviste parla di personaggi che non vogliono essere definiti da questioni politiche, religiose o culturali. Come riesce il cibo a definire le emozioni dei suoi protagonisti e a costruire, in particolare, il personaggio di Thomas?
La pasticceria è radicata dentro Thomas, è parte del suo corpo. Ha imparato da sua nonna, da bambino e usa la pasticceria per avvicinarsi alle persone, per farle avvicinare e farsi amare attraverso il cibo. Non credo sia capace di essere amato in modo diverso. Per esempio, il momento in cui capisce che Owen se n’è andato, Thomas smette di cucinare, non riesce a farlo più. Forse è per questo che va a Gerusalemme, per cucinare di nuovo.
Perché ha deciso di ambientare il suo film a Berlino e a Gerusalemme?
Negli ultimi anni ho vissuto al limite tra le due città. Sono due fra le mie città preferite. Le conosco molto bene, mi sento connesso a loro, penso di poterle vedere con occhi pieni d’amore, sognanti e anche di idealizzarle. Ma sono anche molto consapevole delle loro complessità e problemi. Queste due città sono connesse, hanno entrambe una storia complessa, che è ancora presente; sono entrambe divise, eppure vivono nell’illusione dell’unità. Il legame storico fra le due città è evidente: c’è una grande macchia, un grande dolore che è inciso nella loro memoria, nonostante tutto. E questo, in un certo senso, è il tema del film, che è anche un film sul dolore inciso dentro di noi. Nei protagonisti c’è tanto dolore, che devono spezzare e imparare a gestire.
Realizzato questo progetto, quali sono i suoi piani per il futuro? Pensa di lavorare su protagonisti simili?
Penso che qualsiasi cosa deciderò di fare, conterrà sempre questi elementi. Non so bene cosa farò nel futuro, ho qualche idea e progetto, ma penso che ci siano cose dentro di noi che si manifestano sempre, e anche se un giorno dovessi fare una commedia da quattro soldi ci sarà qualcosa del mio inconscio che uscirà e che metterò nei personaggi. Quando lavoriamo, mettiamo noi stessi dentro al nostro lavoro.