“Made in Italy”: un ritratto schietto del tempo che passa firmato Ligabue

Disoccupazione, crisi coniugale, integrazione, bellezze d'Italia nel terzo film del cantautore emiliano

Un film di Luciano Ligabue. Con Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa, Walter Leonardi, Filippo Dini, Tobia De Angelis, Gianluca Gobbi. Drammatico, 104′. Italia, 2018

Reggio Emilia. Riko lavora in una ditta che insacca salumi. Ha una moglie, Sara, qualche avventura extra coniugale e un figlio ormai cresciuto che cerca l’autonomia dai genitori. Riko è fondakmente un uomo onesto (così lo considerano gli altri) messo a confronto con un presente in cui la precarietà sembra essere diventata l’unica norma: nei sentimenti, nel lavoro, nel domani.

 

Il caro Ligabue ha atteso sedici anni per tornare dietro la macchina da presa e firmare il suo terzo lungometraggio, “Made in Italy”.

I motivi di questa lunga assenza li ha spiegati lui stesso nelle note alla regia: la morte del padre durante la fase di post-produzione di “Da zero a dieci” lo aveva segnato – inconsciamente ha associato le due esperienze; la musica è la sua principale attività; fare film è estremamente faticoso.

Nelle note, il Liga ha anche spiegato perché, alla fine, ha messo mano a un nuovo progetto. Prima di tutto quella di “Made in Italy” è una storia che doveva essere raccontata; poi il personaggio di Riko (Accorsi) veicola un sentimento, l’amore frustrato verso l’Italia, che è anche il suo; e per finire la genesi del film è anomala: sono nate prima le canzoni che hanno formato un album che ha dato il là a una sceneggiatura (con una prevedibile colonna sonora).

Se sui motivi che hanno tenuto Luciano Ligabue per così tanto tempo lontano dal cinema non mi sento assolutamente di esprimere un giudizio, voglio farlo su quelli che lo hanno portato a scrivere e dirigere “Made in Italy”.

La scelta di raccontare la storia d’amore tra Riko e Sara (Smutniak), una coppia come tante, che però vive un momento di grande crisi dopo 18 anni e un figlio, convince poco. Soprattutto risulta forzato, a tratti persino retorico, il volerla utilizzare per mostrare le contraddizioni e le difficoltà sociali, morali ed economiche che attraversano il nostro Paese.

Nonostante Ligabue abbia descritto il film come una storia a sé e non come il ritratto di un’intera generazione (precaria a livello affettivo e lavorativo), la sua visione risulta elitaria e favolistica. L’urgenza di raccontare un disagio è condivisibile, le modalità con cui lo fa non tanto.

Stefano Accorsi e Kasia Smutniak si confermano interpreti di talento, sensibili, poliedrici. Insieme formano una coppia nel complesso credibile, intensa, capace di trasmettere emozioni. Eppure questo non basta a evitare che lo spettatore abbia la sensazione di assistere a un lungo video clip, per quanto curato.

La genesi di “Made in Italy” – un album che diventa film – basterebbe di per sé a spiegarne gli evidenti limiti strutturali, registici e narrativi. Si fatica a trovare un fil rouge che tenga insieme un intreccio dispersivo, confuso e caotico.

Tanti i temi tirati in ballo – dalla crisi coniugale al mondo del lavoro, dai problemi dell’integrazione alla valorizzazione del patrimonio artistico – ma tutti affrontati in modo superficiale, a tratti banale, eccezion fatta per l’analisi della disoccupazione e delle scelte estreme che può portare a compiere.

“Made in Italy” è l’atto conclusivo della trilogia cinematografica voluta da Luciana Ligabue. Rispetto ai film precedenti (“Radio Freccia”, “Da zero a dieci”), però, non si avverte alcuna evoluzione dello stile del regista. Un’occasione imperdibile per i fan del cantante per godersi l’ultimo album in una versione insolita. Per tutti gli altri, piuttosto, un’occasione persa.

 

Il biglietto da acquistare per “Made in Italy” è:
Nemmeno regalato. Omaggio. Di pomeriggio. Ridotto. Sempre.