Un’altra delle mie passioni letterarie (pensandoci via via mi sto accorgendo di averne tante, ed è bellissimo) sono i “romanzi americani”. Storie ambientate a partire dal secondo dopoguerra e che parlano di famiglia, come “Pastorale americana” di Philip Roth, “Libertà” di Jonathan Franzen e “I provinciali” di Jonathan Dee.
“Long Island story“, uscito il 21 febbraio per Bompiani, rientra di sicuro nella categoria. Anche se, a lettura ultimata, non ho ancora deciso se il romanzo di Rick Gekoski (ispirato ampiamente alla sua infanzia, ho scoperto alla fine) sia genuinamente anni ’50 oppure costruito a bella posta, insistendo, anche in maniera troppo marcata, sugli stereotipi del genere – a partire dalla lingua.
Estate 1953. C’è un’ondata di afa, il maccartismo dilaga con processi e persecuzioni, e la famiglia Grossman – Ben, funzionario governativo dalle idee filosocialiste, la brillante, irrequieta Addie e i due figli – sta per traslocare da Washington a Long Island. È un’occasione o un ripiego?
Quanto costa, per una coppia, ridimensionare le aspirazioni e cercare di ridare un senso a un legame già non facilissimo? Possibile che Ben debba rinunciare per sempre al suo sogno di diventare scrittore per fare l’avvocato e mantenere la famiglia? E come si vive nelle enclave residenziali al limitare delle grandi città, dove a ogni paradiso domestico fatto di prati, aiuole, case nuove e barbecue corrisponde un piccolo inferno domestico di frustrazioni e bugie?
Di cosa da dire ce ne sarebbero diverse, ma alla fine mi sono trovata soprattutto a domandarmi perché, in questo genere di romanzo, nove su dieci è l’uomo ad avere una vita parallela, un’amante, una storiella? E la moglie si limita al ruolo di comprimaria, di quella che ci pensa, a farsi una scappatella, ma poi va a finire che torna sempre sulla “retta via”? E solitamente anche che si riprende il fedifrago?
Siamo negli anni ’50, d’accordo, e molto spesso le donne sono ancora prigioniere di un certo tipo di educazione e di morale, che le vuole mogli, madri, angeli del focolare e arrivederci – come la madre di Addie, Perle. Ma le cose stanno comunque cambiando, in quel periodo. Le donne (come Addie!) iniziano ad avere un’istruzione, ad andare all’università, ad avere il legittimo desiderio di farsi anche una posizione, di avere una carriera oltre a una famiglia.
Eppure, nonostante tutto, la figura femminile risulta in queste storie quasi sempre sminuita. Anche la stessa Rhoda, l’amante di Ben, donna in carriera e avvocato in un ufficio dove di donne ce ne sono pochissime, dopo un esordio promettente finisce per fare una figura davvero meschina e misera. Una spalla, appunto, che esiste quasi soltanto in funzione del “suo” uomo.
“Long Island story” è un romanzo piacevole ma alquanto prevedibile, che aggiunge molto poco al genere in cui si inserisce. Fino all’ultimo si va avanti per la curiosità di capire se succederà qualcosa di “eclatante” – o quanto meno qualcosa! -, se i protagonisti avranno il coraggio o la forza di dare una svolta alle rispettive vite… e niente [spoiler!], non lo fanno. Dopo tanto dibattersi e tanto arrovellarsi, finiscono esattamente come avevano iniziato.
Va a finire che i personaggi più interessanti sono tutto sommato i figli della coppia, Jake e Becca, di 10 e 6 anni. Quanto meno a loro qualcosina succede, hanno delle convinzioni e delle personalità definite. Gli “adulti”… una grande delusione!