Seguendo l’esempio dell’esimio collega Vittorio De Agrò, che in passato ha firmato pezzi schietti e arguti diretti ai vertici dei diversi Festival cinematografici, eccomi qui ad adottare la stessa forma per dar voce alle mie rimostranze sull’esito della Berlinale 2018.
Comincio col dire che tra i film in concorso non ne ho trovato nessuno che mi sembrasse un capolavoro, ma qualcuno buono sì. E aggiungo che sono consapevole che questo vuol essere un festival “politico”, che dà visibilità a pellicole di nicchia e a produzioni minori che toccano argomenti scottanti o scomodi.
Nonostante tutte le premesse, l’Orso d’Oro a “Touch me not”, per me, è incomprensibile: c’è un limite anche all’essere alternativi a tutti i costi!
“Non ci aspettavamo il premio – ha dichiarato la regista Adina Pintilie in conferenza stampa (be’, neanche noi, ci creda!). – Il nostro film è un invito al dialogo, all’empatia e all’accettazione dell’altro, del diverso, un invito a non etichettare le persone prima di conoscerle. È una sorta di sfida a reinterpretare la propria concezione di intimità. È molto soggettivo, come uno specchio che offriamo agli spettatori dove loro posso contemplare se stessi”.
Intenzione molto nobile, ma più adatta a un progetto di ricerca di psicologia e sessuologia con annessa installazione video di arte concettuale che a un film. Portare sostanza sul grande schermo è giusto, ma questo non significa dover far venire voglia agli spettatori di fuggire dalla sala seduta stante – quello che hanno fatto tanti giornalisti, me compresa, all’anteprima stampa.
Un buon film deve tenere conto anche del pubblico a cui si sta rivolgendo, deve intrattenerlo, non deve essere solo l’opera di auto-celebrazione intellettuale di un regista. Queste due ore abbondanti di seduta psichiatrica decisamente non tengono conto del pubblico.
“Touch me no” è un mix di realtà e finzione, in cui gli attori si mettono a nudo in una sorta di documentario che però documentario non è. E dopo i primi dieci minuti di corpi e ambienti bianchi asettici si sprofonda nella noia. Si resiste fino a metà, poi si cede al ritmo lento e ai monologhi introspettivi. “Perché dovrei restare?”, si chiede lo spettatore. E ha ragione: perché dovrebbe?
Se il premio al film della Pintilie è inconcepibile, lo è altrettanto il fatto che i tedeschi non abbiano avuto uno straccio di riconoscimento. Cos’è, una forma di razzismo inverso, per mostrare che non si fanno favoritismi ai padroni di casa? “In the Aisles” (In den Gängen), per esempio, è una pellicola pregevole, che parla con delicatezza e un pizzico di umorismo, di solitudine e di speranza.
Che una produzione americana come “Don’t worry, he won’t get far on foot” di Gus Van Sant (qui la recensione) vincesse un premio era pura fantascienza, lo so: troppo mainstream per i gusti della Berlinale. Eppure è un peccato, perché si tratta di un bel film. E l’iraniano “Pig” (Khook)? Ignorato completamente, nonostante l’ottimo ritmo e il rimprovero arguto alla nostra società troppo social.
Dopo tante critiche, vi state chiedendo a chi averei assegnato io l’Orso d’Oro, se la decisione fosse stata nelle mie mani? Confesso di non avere un titolo preciso in mente. Certo, sarebbe stato un film capace di tenere il pubblico seduto in sala fino alla fine.
Insomma, che si dia visibilità a produzioni alternative e di nicchia è cosa buona e giusta, ma che in nome di questo assunto si metta da parte ogni opera non considerata abbastanza strana o sperimentale, be’, va contro i principi della democrazia dell’arte. Ed è anche una forma di discriminazione bella e buona.