Un film di Woody Allen. Con Jim Belushi, Juno Temple, Justin Timberlake, Kate Winslet, Max Casella, Jack Gore. Drammatico, 101′. USA 2017

Coney Island, 1950. Le vite di quattro personaggi si intrecciano ai piedi della celebre ruota panoramica: quella dell’imbronciata e malinconica Ginny (Winslet), ex attrice emotivamente instabile, ora cameriera presso un modesto ristorante di pesce; di suo marito Humpty (Belushi), rozzo manovratore di giostre; del giovane Mickey  (Timberlake), un bagnino di bell’aspetto che coltiva aspirazioni da commediografo; e della ribelle  Carolina (Temple), la figlia che Humpty non ha visto per molto tempo e che ora è costretta a nascondersi nell’appartamento del padre per sfuggire a un gruppo di spietati gangster che le dà la caccia.

 

A un anno di distanza da “Café Society”, Woody Allen torna dietro la macchina da presa con un esile dramma che trova nella suggestiva ambientazione anni ’50 il suo vero punto di forza. Interamente immerso nel coloratissimo microcosmo di una fiabesca Coney Island tanto sfarzosa quanto limitante, “La ruota delle meraviglie” diviene un’assordante metafora del disordine interiore e dell’instabilità emotiva.

Nel cuore di questo incessante frastuono si consumano incolori le giornate di Ginny, interpretata da una Kate Winslet in stato di grazia: l’attrice diventa ora una sciatta Norma Desmond, ora un’ossessiva Madame Bovary, infine, una Medea postmoderna senza rimorsi. Una performance disperatamente travolgente e mai sopra le righe per un personaggio spinoso, difficile da mettere in scena in maniera credibile.

Si potrà sostenere che i film di Allen continuano da anni a ruotare attorno ai medesimi temi (necessità delle illusioni, desideri infranti, amori e infedeltà), ma altrettanto innegabile è che il cineasta newyorchese sa rappresentarli attraverso sempre nuove suggestioni visive e sonore, e inedite cornici narrative.

“La ruota delle meraviglie” si configura come spietata elegia delle debolezze umane. Vanità, invidia e assuefazione sono solo alcuni dei violenti sentimenti che il cinico genio dell’ironia fa irrompere sullo schermo, di fronte agli occhi avidi e increduli dello spettatore.

Il consueto pessimismo di Allen, con l’immancabile personaggio che sceglie il male perché incapace di affrontare le conseguenze del fallimento e dell’errore, qui non dà vita a un quesito filosofico razionale, non salva e non condanna.

La sconfitta dei personaggi è senza appello e manca anche quel minimo di consolazione presente nei precedenti film. Non c’è umorismo né un briciolo di rivalsa professionale che tenga i protagonisti a galla. Qui affondano tutti.