Se il nostro destino è già un po’ scritto nel nome che portiamo, per questa giovane attrice decidere di farsi strada nel difficile mondo della recitazione deve essere stata una scelta quasi naturale.
Stella Egitto è una siciliana di Messina che, dopo il diploma, ha voluto tentare il grande salto e spostarsi a Roma per studiare all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica Silvio D’Amico. Un azzardo che, visti i successi che hanno già punteggiato la sua carriera, si è rivelato vincente.
Abbiamo intervistato Stella Egitto per Parole a Colori, per parlare delle esperienze professionali che più l’hanno segnata da quando ha esordito nel 2004, ma anche del mestiere di attore, che non dovrebbe essere mai sottovalutato.
Ciao Stella. Inizio col chiederti come e quando è nata in te la passione per la recitazione.
Nasce tutto al liceo: incontro la drammaturgia e me ne innamoro alla sola lettura. Da lì le mie prime volte “consapevoli” a teatro come spettatrice, poi la frequentazione di ogni forma di laboratorio che potesse offrirmi la bella città sicula dove risiedevo. Subito dopo il diploma, l’intenzione di provare a trasformare questa passione in un mestiere, dunque la mia partenza, in senso geografico e non.
Parliamo degli inizi: tanto lavoro prima di ottenere dei risultati oppure hai avuto la fortuna di essere notata da qualcuno del settore e le cose sono poi andate avanti da sé?
Tanto lavoro di preparazione alle selezioni all’Accademia nazionale di arte drammatica Silvio D’Amico di Roma. I treni notte più felici della mia vita. Superare le selezioni al primo tentativo e arrivare a formarmi nella scuola d’alta formazione artistica più prestigiosa d’Italia era già un risultato, ma un risultato da cui cominciare. Da lì un percorso di formazione durissimo ma denso di incontri: belli, meno belli, utili, meno utili, ma tutti appassionanti. Dopo questa fase i semi gettati hanno iniziato a germogliare.
Calcare il palcoscenico o recitare in un film è un po’ il sogno di giovani e meno giovani. Ma come si diventa, in pratica, attori in Italia?
Su questa domanda rischio subito di aprire una polemica, ma lo premetto. Calcare un palcoscenico non è un capriccio, ma una responsabilità. Una responsabilità nei confronti di un mestiere che non possono fare tutti e che non è giusto che venga inflazionato e ridotto a un banale e retorico mettersi in mostra. È un mestiere di urgenze, un mestiere che, se fatto con onestà, ti insegna a metterti da parte per consegnare la tua esperienza, la tua anima, il tuo fiato e il tuo corpo a linguaggi altri e scritture eterne. Sei un bravo attore se il personaggio che interpreti ti precede perché è lui che metti in luce, non te stesso in quanto interprete.
Ci sono dei modelli, nel campo della recitazione e non, a cui ti ispiri?
Non ho guru in particolare. Spero, con la mia condotta e il mio impegno, di seguire le orme di coloro che sono stati in grado, in questo campo, di lasciare qualcosa ai posteri.
E i performer che preferisci?
Roberto Latini (Fortebraccio Teatro) trovo che sia un interprete straordinario, vivo e trasversale. I miei conterranei – ancora ahimè non conosciuti di persona – Spiro Scimone e Francesco Sframeli, due drammaturghi e interpreti brillanti e surreali. Manuela Mandracchia, Maria Paiato, Anna Bonaiuto, delle vere forze della natura.
Non ancora trentenne, hai già alle spalle lavori di spessore in settori diversi – teatro, grande e piccolo schermo. Ce n’è qualcuno in particolare che ti è rimasto nel cuore?
Ogni lavoro per cui sono stata scelta ha racchiuso qualcosa di speciale. Dalla tournée con la regia di Ruggero Cappuccio, alla mia recente esperienza in compagnia insieme a Gianmarco Tognazzi e con la regia di Armando Pugliese, che tra i tanti era il regista con cui più di ogni altro avrei voluto lavorare. Dal set di Belgrado per “Gli anni spezzati” alla mia Sicilia con Lucio Pellegrini. Ma tra tutti forse sì, l’incontro con Gimbo (Gianmarco Tognazzi) prima sul set e poi in teatro è quello che porto più nel cuore. Gianmarco è, ad oggi, un punto di riferimento importante per la mia carriera.
E quali sono le differenze, tecnicamente parlando, della preparazione di un attore per i diversi ruoli?
Tecnicamente, quando si lavora in teatro il teatro diventa la tua casa e la compagnia (artistica e tecnica) la tua famiglia. Ti fa strano persino tornare a casa a farti una doccia, già non vedi l’ora di rientrare in quella che, in quel momento, è la tua vera casa: il camerino, la platea, il palcoscenico. Lavorare alla costruzione di uno spettacolo significa abitare un microcosmo e coltivarlo attimo per attimo, per preservarne gli equilibri: lavorare d’intelletto, di cuore, di fatica, di sforzo, di pazienza, d’amore. Nel cinema e nella televisione è tutto un po’ più ampio, una famiglia meno famiglia, più grande, dove c’è sempre meno tempo di soffermarsi sui dettagli. La preparazione è più individuale e l’incontro con i tuoi interlocutori avviene poco prima del ciak, quando sistemi il suono del microfono e capisci come prendere giusta la luce. C’è meno libertà di esagerare, ma ci sono tante più comodità e coccole.
A livello di gratificazione, meglio il caloroso applauso del Sistina dopo una performance teatrale oppure la soddisfazione di rivedere una serie televisiva a cui si è lavorato, e soprattutto di vederla apprezzata dal pubblico?
Stesso livello di soddisfazione, ma con temperature diverse. L’applauso del pubblico in sala ti ricompensa dell’impegno profuso, in un abbraccio che ti scalda il cuore fino al profondo, specie nel momento della fine della performance in cui normalmente si è molto vulnerabili. Ma anche quando si parla di una serie che hai amato girare e nella quale ti riconosci, vedere lo share che svetta, all’indomani della messa in onda, ha il suo perché.
Non è politicamente corretto dire pubblicamente chi si detesta tra i colleghi, attori e registi, ma dal punto di vista umano sono state molte le delusioni ricevute?
Sì, le delusioni sono state molte, ma incolpo anche un po’ me stessa per questo, perché ancora non ho imparato a ridimensionare le mie aspettative.
E rovesciando la medaglia, ci sono stati colleghi con cui è nata un’intesa professionale profonda?
Negli anni di compagnia insieme, ancora Gianmarco Tognazzi.
La bellezza non è tutto, si dice, ma di nome fai Stella e di cognome Egitto. Ti senti un po’ Cleopatra?
Certo che sì. Oddio, se penso alla fine che fatto…
Gli attori spesso si innamorano tra loro facendo casta. Non vogliamo entrare nel tuo privato, ovviamente, ma cosa dovrebbe fare il semplice impiegato del catasto per riuscire a conquistare l’interesse della donna Stella?
Diciamo che nessuno dovrebbe fare niente che non gli venga naturale.
Come descriveresti in una sola parola la Stella Egitto attrice?
Attrice.
Dall’alto della tua esperienza, che consigli ti sentiresti di dare a chi sogna di fare l’attore nel nostro paese?
Consiglio pazienza, impegno e gastroprotettori a volontà.
Progetti futuri?
Tanti, ma abito il pieno cliché della scaramanzia. Vorrei lavorare in teatro con chi amo e ancora non conosco, e poi vorrei lavorare al cinema con Crialese, poi con Garrone, e poi con tanti altri.
Come ti vedi, diciamo, tra cinque anni?
Mi vedo, e per la condizione in cui versa questo paese non mi sembra poco. Mi vedo continuare a scegliere di fare quello che mi piace, e mi vedo continuare a dire di no a quello che non mi piace, anche a discapito di soldi e facile popolarità. Mi vedo integra ancora nella mia passione e nei criteri con cui la proteggo.
Grazie per esserti raccontata sul nostro sito e ovviamente ti facciamo un grande in bocca al lupo per la tua carriera. Vuoi aggiungere qualcosa?
Crepino mille lupi, e non aggiungo altro. Se non un grande grazie a voi della redazione per la curiosità che avete avuto nel pormi queste domande, e poi ai lettori che avranno la pazienza di arrivare all’ultima riga di questo articolo che parla di me che mi racconto.