Buongiorno al regista Alberto Caviglia che è qui con noi per parlare della sua esperienza con il documentario “Pecore in erba”, delle difficoltà del fare – e distribuire – film in Italia e ovviamente dei progetti per il futuro.
Grazie a voi, sono a vostra disposizione.
La nostra prima domanda potrebbe suonarti brutale. Il tuo film d’esordio “Pecore in erba” è stato selezionato per il Festival di Venezia, ha ricevuto bellissime critiche, ma poi all’uscita in sala i riscontri non sono stati dei migliori, a causa di problemi di distribuzione (la prima settimana è stato distribuito in 19 sale, poi solo in 9) e cattiva comunicazione, quasi un paradosso. Con il senno di poi avresti portato lo stesso il film a Venezia oppure avresti aspettato un momento migliore per lanciarlo?
Nel momento in cui si va Venezia è inevitabile che il film esca domani ed è normale cavalcare l’onda mediatica. Mi sembra una scelta commerciale giusta e doverosa. Il mio è uscito un mese dopo e magari ha perso un po’ dell’impatto che avrebbe potuto avere. Settembre è sempre un mese difficile per il cinema. Tornando indietro non farei niente di diverso. Essendo un’opera prima devi inevitabilmente sottostare a dei meccanismi di distribuzione, non hai molti spazi di manovra e ti devi affidare a chi di dovere. Mi dispiace solo che il film non abbia originato un passaparola il pubblico un passaparola. Mi rimarrà sempre il dubbio che forse, con più tempo, il film avrebbe potuto fare un percorso più importante, questo sì.
Se “Pecore in erba” non ha brillato quanto a incassi, ha invece riscosso un grande successo nei Festival, arrivando addirittura in Cina. Altro paradosso?
Sono contento che “Pecore in Erba”, ovunque sia stato proiettato, abbia riscosso consensi. Probabilmente il mockumentary in Italia non è ancora un genere molto compreso, ma ho ritenuto che per raccontare la storia di un antisemita e trasformarlo in un eroe fosse il mezzo più appropriato.
Il protagonista, Davide Giordano, è stato bravo a calarsi nel ruolo, riuscendo a farsi amare dal pubblico nonostante dicesse e facesse cose orribili. Con quale criterio lo hai scelto?
Sono contento della scelta di Davide, perché trovare il volto giusto per il personaggio di Leonardo non è stato semplice. Davide si è dimostrato molto bravo, soprattutto a portare a compimento le mie intenzioni, ovvero raccontare un grande cattivo giocando su caratteristiche opposte alla cattiveria. Nel film il personaggio insiste su purezza, ingenuità e bontà facendo però al contempo cose terribili e così spiazzando. Questo lo fa apparire incompreso, portando lo spettatore a tifare per lui e il minuto dopo a pensare “Sto davvero tifando per un antisemita?”. Si crea uno spaesamento emotivo e questo era il mio obiettivo come autore.
A proposito del cast, uno dei punti di forza di “Pecore in erba” è sicuramente quello di poter contare sulla partecipazione di numerose guest star, da Carlo Freccero a Vitto Sgarbi, da Massimo Di Cataldo a Giulia Michelini. Più volte hai dichiarato che sei il primo a non capire come sei riuscito a coinvolgere così tanti volti noti. Come hai fatto a contattarli tutti? E come hanno reagito leggendo la sceneggiatura?
Con ognuno di loro c’è stato un percorso diverso: alcuni hanno accettato subito con entusiasmo, altri ho dovuto inseguirli, altri hanno detto sì solo dopo letto l’elenco dei partecipanti. È stato un lavoro intenso perché quando ho iniziato le riprese avevo al massimo due conferme, il resto è stato un vero e proprio work in progress.
Più difficile gestire il cast o le guest star?
È stato davvero un lavoro stranissimo, perché nel film ci sono guest star, attori e figuranti non professionisti. Le guest, sebbene abituati alle telecamere, hanno in certi casi trovato difficoltà a parlare e interpretare loro stessi, non difendendo le proprie idee ma seguendole. Dirigere gli attori è stato bello e faticoso, così come è stato stimolante lavorare con il romano di Trastevere, fondamentale per la piena riuscita del film.
Viste le tematiche mai così attuali – il razzismo e l’antisemitismo – il film ha avuto anche modo di girare per le scuole. Cosa ci dici di questa esperienza? Come hanno reagito i giovani spettatori?
Ho accompagnato il film in diverse scuole e sono stati i momenti più belli, perché sono nati dei dibattiti interessanti e coinvolgenti che mi hanno fatto capire che il mio messaggio era arrivato forte e chiaro, nonostante l’uso della satira. Mi sarebbe piaciuto fare di più, ma anche questo, purtroppo, dipende dall’efficacia della distribuzione.
Nel finale, bello e poetico, la satira viene meno per lasciare spazio al messaggio del film: “Ascoltiamo gli anziani, la voce dell’esperienza e del ricordo”. Hai sempre voluto chiudere così la tua storia, oppure sei passato attraverso passaggi di scrittura intermedi?
Il finale mi ha divertito, perché alcuni lo hanno trovato buonista, quando nelle intenzioni doveva essere l’opposto, il trionfo della follia e del male, portato a compimento dal protagonista nel corso della sua vita. Non è un caso che a dare un segnale di speranza e a porre fine alla storia di Leonardo sia il nonno, personaggio chiave del film, l’unico a mio avviso sano e non affetto da questo antisemitismo imperante della nostra società
Un’ultima curiosità: saresti pronto a tornare alla fiction, magari di satira, essendo partito da lì come assistente?
Per il momento la mia aspirazione è riuscire a girare un secondo lungometraggio, ma non escludo nulla.
In bocca a lupo Alberto per i tuoi progetti futuri.
Grazie e crepi il lupo.