Qualcuno potrebbe conoscerla per il ruolo di Debora Di Marzio nella serie “Gomorra”. Altri la ricorderanno per la spumeggiante interpretazione di Rosa, una parrucchiera dei quartieri spagnoli di Napoli, nell’omonimo film di Stefano Incerti. Tuttavia oggi, nei principali festival del cinema europei e non, Pina Turco viene identificata con Maria, la protagonista di “Il vizio della speranza” di Edoardo De Angelis.
Classe 1984, Pina Turco nasce a Torre del Greco. Dopo la laurea e il lavoro come assistente sociale, si avvicina alla recitazione, a ventotto anni, attraverso la serie “Un posto al sole”, e da lì è un crescendo di ruoli sempre diversi e sempre ben centrati.
In “Il vizio della speranza” la Turco regala una delle sue interpretazioni più particolari e, forse, difficili. Giocando con la cinepresa e con l’ineffabilità del suo personaggio, dà vita a una Maria sfuggente ed ermetica quanto basta per tenere il pubblico fermo lì, sulla sedia, fino alla fine, intento a inseguire questa donna meravigliosa.
Incontro Pina Turco una tranquilla domenica pomeriggio a Londra, al May Fair Hotel. Dopo una giornata spesa a godere del timido sole inglese d’autunno, entro nella stanza e resto abbagliata dal calore e dalla luce del sorriso dell’attrice. Ci sediamo e mi presento, tempo di ordinare un caffè – espresso, naturalmente! – e la nostra intervista comincia.
Uscendo un attimo dal mio ruolo di giornalista, vorrei cominciare facendoti i complimenti per la tua interpretazione di Maria.
Grazie mille.
Una domanda a bruciapelo: com’è stato lavorare con Edoardo De Angelis?
Ho assistito a tutto il processo creativo di Edoardo, che ha cambiato forma tantissime volte. Edoardo era come un sarto, che delineava e cuciva il personaggio a poco a poco, e mentre lui faceva questo anche io facevo la stessa cosa nella mia mente. Quindi io sapevo perfettamente che tipo di personaggio volesse. Poi, perché ho un modo diverso di lavorare, cioè non traspare niente mentre lavoro, soprattutto a casa, Edoardo mi ha spesso detto che non sentivo il personaggio dentro. Questo inizialmente ha creato un po’ di diffidenza verso di me perché sembrava che io non fossi pronta e la cosa mi è dispiaciuta. Però sapevo che quando avessimo cominciato a girare avrei assestato il colpo. Diciamo che ho saputo aspettare!
Parlando del tuo personaggio, Maria è un soggetto molto sfuggente, non solo per il pubblico ma anche per la telecamera. Come hai impostato il tuo lavoro su di lei?
Sono contenta che tu abbia notato questa cosa di Maria. Fino a un momento prima di iniziare a girare, io stessa sentivo che in questo personaggio c’era qualcosa che non riuscivo ad agganciare, mi sembrava sempre di rincorrerlo. Non riuscivo a penetrare e capire fino in fondo Maria. Però, siccome io non credo nel caso, ho capito che questa cosa che io non riuscivo ad afferrare doveva essere il personaggio. Allora ho ragionato un po’ all’inverso, ottimizzando quello che avevo, usando questa cosa che non conoscevo di Maria come il punto di forza del suo personaggio. Infatti, fino alla fine del film, ti chiedi sempre chi sia questa eroina. Capisci qualcosa di lei solo alla fine e questa è la sua cifra, secondo me, il fatto di non essere immediata.
E come sei riuscita ad affrontare questa ermeticità di Maria sul set?
Nei miei lavori precedenti ho sempre interpretato personaggi che richiedevano l’andare a cercare la macchina da presa, rimanendo centrale. Poi, siccome Edoardo mi aveva già avvertito di non fare questa cosa, io ho fatto tutto il contrario di quello che avevo fatto prima. Nel film sembra che io scappi sempre perché, alla fine, ho pensato: bene, è questo film che deve lavorare per Maria, non l’inverso. Quindi, facevo tutte le mie cose e anche se ogni tanto Maria si perde nella scena non importa, tanto la vita è così, non è centrata.
In questo tuo lavoro su Maria c’è qualcosa che senti di aver imparato e che ti porterai dietro in futuro nel tuo lavoro?
Per fare un lavoro come quello che ho fatto in questo film è chiaro che devi amarlo il tuo personaggio, e io amo Maria profondamente. Detto questo, a me non piacciono i mal di testa da personaggio dopo aver fatto un film. Per esempio, quando torno a casa, io non penso al lavoro ma mi dedico alla mia vita quotidiana. È chiaro che è bello fare tanti personaggi diversi perché rappresentano sfide diverse, però mi piace pensare che le cose sono belle quando sono finite.
Facendo un bilancio, com’è stata l’esperienza sul set di “Il vizio della speranza” nel complesso?
È stata un’esperienza molto dolorosa. Tendenzialmente, sul set, mi diverto un po’ di più, ma Edoardo non ha concesso molti divertimenti. Poi la diffidenza di Edoardo è rimasta quasi fino alla fine e non ho ricevuto molte rassicurazioni. L’attore, da buon insicuro, va ogni tanto rassicurato, ma Edoardo questa cosa con me non l’ha mai fatta. Io fino alla fine non ho mai capito se il mio lavoro andasse bene e quindi ho sofferto un po’ del vivere con questo dubbio. Credo di aver risolto questo dubbio solo da poco.
Probabilmente le reazioni del pubblico di fronte al film ti hanno aiutata…
Sì, probabilmente sì.
Hai qualche modello di riferimento, quando si tratta di recitazione?
No, in realtà non ho modelli di riferimento, soprattutto non contemporanei. Ho dato grandissima attenzione alla mia vita intellettuale – mi sono laureata e ho fatto altri lavori nella mia vita, ho avuto il mio primo ruolo a ventotto anni, che è tardissimo nella vita di un’attrice. Non ho studiato recitazione, un po’ per scelta un po’ perché, forse, venendo dal Sud l’idea che ti devi laureare e che devi trovare un lavoro stabile è più sentita. La mancanza di una preparazione, fino a qualche anno fa, la avvertivo come un fatto che mi penalizzava. Adesso la vivo come un punto di forza. Il fatto di non avere modelli mi ha lasciata libera di creare un mio linguaggio. Quando mi rivedo, e non succede spesso perché non mi piace farlo, la cosa che mi piace di più è vedere nel mio modo di recitare uno stile mio. Il sapere che una certa cosa o un ruolo l’avrei potuto fare solo io in quel modo lì, perché lo stile è mio. Questo mi gratifica tanto perché mi fa sentire veramente e profondamente unica.
Parlando un attimo del Sud, recentemente si è parlato tanto di una rinascita del cinema partenopeo. Cosa ne pensi? E questa cosa ti motiva?
È bello quando tutto intorno a te sta fiorendo, la primavera fa bene a tutti. Ho vissuto tanti anni a Roma e sono tornata da poco a Napoli e quindi è bello sentire questa rinascita nell’aria. Mi preoccupa però che questa industria non sia ancora sistematizzata. I film vanno fatti bene, ci vuole rispetto. Fare le cose in maniera grossolana può creare situazioni spiacevoli. Insomma, quello che voglio dire è che è bello che ci sia questa esplosione, perché ha anche a che fare con l’esplosione artistica che è sempre bella. Però il tutto va incanalato in modo sano perché si possa creare valore, se no si crea solo un grosso caos. Quando c’è confusione non c’è rispetto. Tanti miei colleghi hanno fatto dei ruoli e non sono stati pagati, per esempio, perché non c’è ancora un sistema efficace. Queste cose sono spiacevoli.
Prima di lasciarci, un’ultima domanda. Secondo te perché “Il vizio della speranza” è un film assolutamente da andare a vedere al cinema?
Non lo so il perché, però credo che se il film lo capisci, lo ami profondamente, ma se non lo capisci può disturbarti. Questo film ti chiede di prendere una posizione. Quando esci dal cinema non puoi dire se ti è piaciuto o non ti è piaciuto, come capita molto spesso. Questo film ti chiede proprio di prendere parte e te lo chiede in una maniera decisa e importante. Secondo me, questo film o si odia o si ama ed è bello pensare di andare a vederlo con una domanda e uscire con una risposta!
Direi che con queste belle parole ci salutiamo. Grazie mille per essere stata con noi.
Grazie a te.