Classe 1995, Phaim Bhuiyan è per tutti una delle giovani promesse del cinema italiano grazie all’incredibile successo riscosso dal suo primo film da regista, sceneggiatore e attore, “Bangla” (qui la recensione).
Molti critici lo definiscono già “il Woody Allen italiano” ma Phaim è soprattutto un ragazzo 100% torpignattara, quartiere dei sobborghi di Roma che lui racconta con grande ironia e colore. In “Bangla” Torpignattare diventa il palcoscenico dove le sue maschere fresche e originali danno corpo (e voce) alle tante tragicomiche situazioni che un italiano di seconda generazione vive nell’Italia di oggi.
Incontro Phaim Bhuiyan nella grande biblioteca di legno dell’Istituto di cultura francese a Londra, un’ora prima che cominci la proiezione di “Bungla”. Mi trovo davanti un ragazzo acqua e sapone, genuino come i suoi personaggi e leggero come solo un vero romano sa essere.
Dopo una stretta di mano e qualche, dovuto, complimento, la nostra intervista può cominciare.
Ciao Phaim.
Ciao.
Tu fai parte della cosiddetta “generazione YouTube”. Come sei passato dall’usare questa piattaforma per fare video al cinema?
Per come sono partito non pensavo che sarei arrivato a fare cinema. Mi ci è voluto tempo per capire che volevo fare il regista. YouTube mi ha dato tanto da un punto di vista creativo perché è una piattaforma che permette di dire ciò che vuoi, senza quei filtri che uno potrebbe avere quando lavora in modo professionale. Però poi, quando ho capito che non era la mia strada, mi sono mosso verso il cinema anche grazie ai miei insegnanti del liceo, che mi hanno sempre stimolato a intraprendere questo tipo di carriera, e grazie al mio percorso alla scuola di cinema durante il quale ho trovato la mia strada.
E a che punto del tuo percorso è nato il progetto del film “Bangla”?
Il progetto è nato durante il mio percorso universitario, quando ho avuto la possibilità di collaborare con la Rai per un servizio di “Nemo – Nessuno escluso” in cui, insieme all’autore Francesco Mendozi, ho realizzato un piccolo cortometraggio che raccontava un po’ la mia storia personale, la mia religione e le difficoltà di vivere in Italia quando sei un ragazzo di seconda generazione. Dopo la messa in onda, Emanuele Scaringi, che si occupa dello sviluppo dei progetti alla Fandango, mi ha proposto di scrivere una storia dalla quale è poi nato il progetto di “Bangla”.
Ecco, parlando appunto del Bangla, questo personaggio fittizio ricorre spesso nelle tue storie, per esempio appare anche nel tuo corto “Caricabatterie”. Che cosa rappresenta il Bangla per te? È una voce narrante o una maschera che hai creato?
Il Bangla è innanzitutto un luogo comune che noi, nel film, abbiamo voluto esagerare anche facendo del black humour e usando una comicità “politicamente scorretta” tipica degli anni ’60, una cosa che un po’ si era persa nel tempo. In film precedenti, il Bangla è lo stereotipo dell’immigrato, volto a metterne in evidenza solo gli aspetti più denigranti. Ma nel nostro film, abbiamo voluto giocare con questa immagine, soprattutto sfruttando l’idea comune del Bangla come il negozio dove uno si va a comprare la birra quando i supermercati sono chiusi. Nell’immaginario collettivo c’è quindi una simpatia per il Bangla che fa anche molto ridere e che permette di scherzarci sopra.
E ti sei divertito a giocare con questi stereotipi? O è stato difficile?
Si, mi sono divertito ma c’era anche tanta paura, nel senso che io sono un esordiente e in più questi temi, in questo modo, non erano ancora stati trattati, per cui rischiavo di offendere qualcuno o di non essere apprezzato. In più, parlare anche di religione in un contesto come quello italiano era rischioso. Però, dopo aver presentato il film in vari festival, mi sono reso conto che le reazioni, sia del pubblico che dei critici, erano molto positive e quindi mi sono tranquilizzato. D’altronde, se non corri mai il rischio di fare qualcosa di diverso non potrai mai sapere come andrà!
Parlando di comicità, quali sono stati i tuoi modelli di riferimento per il film? Per esempio, io ci ho visto un po’ di ZeroCalcare, ma mi chiedevo se avessi preso anche riferimenti cinematografici del Bangladesh?
Guarda, il Bangladesh è un paese molto giovane con un cinema molto legato a Bollywood, anche se adesso le cose stanno cambiando. Io sono cresciuto con i film di Bollywood perché mamma se li faceva spedire dal Bangladesh, quindi secondo me, in qualche modo, quella cultura cinematografica mi ha influenzato nel mio modo di vedere le cose con una certa ironia. Però per questo film abbiamo cercato di renderlo il più italiano possibile, anche se abbiamo preso molti spunti dal cinema americano. Per esempio, la base da cui siamo partiti per scrivere il film è quella di “Paterson” di Jim Jarmush perché ci piaceva il racconto che faceva questo conducente. Poi siamo arrivati a riferimenti a film italiani, come “Ovo sodo” di Paolo Virzì o “Caro diario” di Nanni Moretti. Ci piaceva molto anche lo humour di Kevin Smith in “Clerks”, perché è un film molto coraggioso fatto con un budget ridotto, con una comicità che ci ricordava un po’ quella della figura del bangla.
Carlotta Antonelli, parlando del film, ha detto che c’è stata tanta improvvisazione. Come sei riuscito a usare l’improvvisazione a tuo vantaggio, senza perdere di vista il tono e il senso del racconto?
L’improvvisazione è stata utile per risolvere quei passaggi che nella sceneggiatura non funzionavano o suonavano male. Io sono stato molto aperto nel capire e nell’aiutare gli attori a individuare cosa cambiare, confrontandomi con loro costantemente. Quando si poteva, l’improvvisazione ha aiutato molto in questo lavoro e l’ho usata senza comunque cambiare il senso delle scene.
Immagino quindi che il casting sia stato fondamentale, penso soprattutto al ruolo di Asia…
Per quanto riguarda la protagonista è stato difficile, all’inizio, trovare un’attrice che avesse in sé il giusto equilibrio. Doveva essere bella ma al contempo non risultare antipatica. Poi io, anche come attore, dovevo trovare il giusto feeling con lei. Per fortuna, in Carlotta ho trovato la persona perfetta.
E per quanto riguarda gli altri personaggi, ad esempio gli altri “bangla” del tuo film, come li hai trovati?
Per quanto riguarda gli altri personaggi, ho chiamato i miei amici e ho fatto tanto street casting. Il rischio era alto, perché molti non erano attori professionisti e non avevano mai recitato, per cui abbiamo fatto tanto acting coach prima di iniziare con le riprese, il che ci ha aiutato molto. Sono rimasto sbalordito dal risultato, devo dire, pensavo sarebbe andata peggio!
Invece, come mai hai deciso di vestire proprio tu i panni del protagonista Phaim?
Bella domanda! Il fatto è che raccontando un mondo che non era mai stato raccontato prima, trovare gli attori giusti era davvero difficile. Esponendomi già come regista e raccontando una storia così personale, quasi autobiografica, ho scelto di interpretare Phaim per rischiare il tutto per tutto; volevo prendermi le mie responsabilità fino in fondo.
Ultima domanda. Nonostante il titolo, il film si chiude con Matteo, un ragazzo di origini romane, che decide di cominciare a correre per inseguire una ragazza bengalese. Perché hai deciso di lasciare il tuo spettatore proprio con quest’ultima immagine?
Guarda, a noi semplicemente faceva molto ridere l’idea che anche Matteo avesse cambiato idea, come a lasciare aperta a tutti la possibilità di scegliere. Nel film racconto di un contesto che, pur essendo parte di una società avanzata, è ancora molto influenzato dalla trazione, per cui è difficile fare dei cambiamenti senza deludere i genitori o i familiari. È difficile a volte trovare il coraggio di cambiare. Per cui, facendo vedere che anche Matteo alla fine cambia, il messaggio che abbiamo cercato di trasmettere è che la vita è fatta di opzioni e che siamo noi che abbiamo il potere di scegliere.