Intervista a Marco Bellocchio: il cinema, la regia, i grandi temi

Il regista piacentino, protagonista della rassegna "Satire and Morality" a Londra, si racconta

Un uomo e un regista senza mezzi termini, così come lo sono anche tutti i suoi film. Marco Bellocchio è stato protagonista a Londra per tutto il mese di luglio di una retrospettiva – “Satire and Morality”, iniziativa in collaborazione fra l’Istituto di cultura francese a Londra e l’Istituto Luce di Roma – che celebra il suo lavoro dietro alla cinepresa.

Attraverso film come “Bella addormentata”, “La condanna”, “Il sogno della farfalla” e “Diavolo in corpo”, il regista piacentino si è raccontato al pubblico londinese, nella città che in passato lo ha aiutato a scoprire e coltivare la sua passione per il cinema.

Lo abbiamo incontrato nel corso della retrospettiva, per parlare con lui delle grandi tematiche che ha affrontato nei suoi lavori – dalla famiglia al senso religioso, dall’amore alla politica – e del suo linguaggio mai prevedibile o banale, che spingono chi guarda a riflettere e mettere in discussione ciò che lo circonda.

 

Innanzitutto, congratulazioni per questo riconoscimento importante: una retrospettiva sui suoi lavori più emblematici e attuali, proprio nella città dove è nato il suo primo film, “I pugni in tasca”. Ripensando oggi al Marco Bellocchio di allora, che ricordi ha della sua prima esperienza londinese?

Qui a Londra, da straniero, ho trovato la concentrazione per scrivere la mia prima storia, forse proprio perché ero così lontano da casa e mi sentivo più libero. Poi sono ritornato in Italia e ho realizzato questa idea, il cui esito clamoroso è stato completamente inaspettato. Certo, la prima esperienza la fai liberamente, sapendo che se va male puoi sempre cambiare vita.

Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi in una scena del film “Vincere”, diretto da Marco Bellocchio (2009)

Per descrivere questa rassegna è stato scelto il titolo “Satira e moralità”. Ecco, cominciamo proprio da questo: come pensa che queste due parole descrivano il suo lavoro come regista e le sue creazioni?

Be’, sono due parole molto interessanti. La satira rappresenta quel senso di cercare in ciò che descrivo l’aspetto comico ma anche critico, ha sempre qualcosa di distruttivo e comunque è un atteggiamento contro un potere. Satireggiare è prendere in giro, quel trovare il lato ridicolo e comico di chi è al potere. In questo, la satira rappresenta una mia dimensione anarchica, che non ho mai perduto e che mi nasce quasi spontanea, anche se poi, per periodi più o meno lunghi, ho cercato di allontanarmene. La moralità, invece, è sì legata al mio modo di fare satira ma proviene dalla mia formazione, la mia prima formazione più precisamente, che è stata di tipo cattolico. Certamente nel cattolicesimo ci sono quelle componenti che riguardano l’essere buoni, l’aiutare i più deboli, ma naturalmente c’è poi anche un altro aspetto, che io ho sempre molto satireggiato, che è l’ipocrisia, il conformismo, l’essere allineati con il potere. Io però distinguo tra moralità e moralismo. Mentre il moralismo rappresenta la paura, la moralità, soprattutto oggi, rappresenta anche lo scagliarsi contro la corruzione, contro coloro che distruggono la politica. Satira e moralità sono chiaramente due parole che vanno sviluppate ma credo che, tutto sommato, mi corrispondano.

Parlando di questo, ho notato che nei suoi film – penso ad esempio a “Il regista di matrimoni” e “L’ora di religione” – il discorso sulla moralità emerge spesso in relazione alla figura dell’artista. Considerando la sua esperienza, pensa che “fare l’artista” in Italia sia oggi ostacolato da qualcosa?

Gli ostacoli ci sono sempre stati. In certi momenti sono stati di tipo politico, e non parlo solo del periodo fascista, ma anche nel lungo periodo democristiano dove una serie di temi non si potevano affrontare. Anche se non si è mai arrivati a una vera persecuzione come in altri paesi, è chiaro che dal dopoguerra in poi c’è stata maggiore liberalità. Gli ostacoli, oggi, sono soprattutto di natura economica, nel senso che il tuo valore è calcolato in rapporto agli incassi del film. Oggi è un fatto sempre più schiacciante il fatto che esisti solo se puoi essere visto, tanto che spesso ci sono film di qualità che però scompaiono.

Sergio Castellitto in una scena del film del 2006 “Il regista di matrimoni”

È un po’ il discorso che fa il personaggio di Smamma nel “Regista di matrimoni”…

Sì, esatto. Lui addirittura arriva al paradosso pirandelliano di scomparire per essere finalmente visto e premiato, per cui solo fingendosi morto riesce ad essere riconosciuto.

Muovendoci verso un altro tema, la famiglia è un elemento preponderante nei suoi film. Perché i suoi racconti si svolgono prevalentemente all’interno dell’istituzione familiare?

Io credo che ci siano dei dati oggettivi. Per la mia storia, per la mia età, io ho vissuto in una famiglia tradizionale e numerosa, in cui mio padre lavorava, era avvocato, ma non andava in chiesa, mentre mia madre era una donna molto cattolica. Io certamente parto dalla famiglia ma spesso mi interesso di istituzioni che sono in diretta relazione con il nucleo familiare, come la scuola, l’esercito o la politica. In altre parole, la famiglia è un punto di partenza. Poi, ci sono una serie di situazioni che ho vissuto in maniera diretta nella mia famiglia e che racconto in modo metaforico nei miei film. Quindi, l’esperienza familiare nella mia infanzia e adolescenza mi ha segnato e ha creato in me un micro-mondo dal quale parto per parlare poi di altre cose.

Nel libretto che introduce e presenta la rassegna, curato da Adrian Wootton, è stato definito come un “grande interprete della psiche italiana”. Ecco, riguardando ai suoi film con aria di bilancio, si sente interprete di una qualche psiche italiana?

Tutti noi abbiamo la nostra psiche. Certamente, sempre nel corso della mia esperienza, nonostante il mio interesse verso i comportamenti all’interno della famiglia, ho sempre rivolto la mia attenzione verso la politica e la società esterna, in particolare verso le utopie e le speranze verso un possibile cambiamento dell’Italia. Poi però, dopo l’abbandono della politica militante, la mia attenzione si è rivolta a me stesso, verso la mia psiche, guardando al rapporto tra il mio malessere e la società esterna nel tentativo di metterli insieme. Da qui una mia attenzione alla psicologia del profondo.

Grazie mille per il suo tempo.

No, grazie a te!